Quanto costa in Turchia l’indipendenza dei giornalisti
Le testate indipendenti sono sempre meno e faticano a tirare avanti, tra persecuzioni giudiziarie e inserzionisti che stanno alla larga
In Turchia il prezzo da pagare per l’indipendenza giornalistica ed editoriale è diventato altissimo. Negli ultimi due anni, cioè da dopo il tentato colpo di stato contro il presidente del governo turco Recep Tayyip Erdoğan, decine di giornali e televisioni nazionali sono stati chiusi con l’accusa di avere appoggiato il golpe o di avere sostenuto il separatismo curdo. Molte altre testate, come Hurriyet e CNN Turk, sono state acquistate da imprenditori considerati vicini a Erdoğan. I giornali indipendenti, invece, sono rimasti molto pochi e tirano avanti tra moltissime difficoltà. Per loro il problema più grande è la mancanza di pubblicità, e quindi di soldi: gli inserzionisti stanno alla larga per paura di inimicarsi il governo.
Uno dei pochi giornali turchi che continua a essere critico nei confronti di Erdoğan è Cumhuriyet, il cui direttore Murat Sabuncu e 13 giornalisti sono stati da poco rilasciati su cauzione dopo 17 mesi in prigione. Per loro i problemi giudiziari non sono ancora finiti: rischiano diversi anni di carcere perché sono accusati di reati legati al terrorismo. Sabuncu e altri giornalisti di Cumhuriyet hanno raccontato al Wall Street Journal delle enormi difficoltà del loro giornale a trovare nuovi inserzionisti: «Ci stiamo facendo le pulizie dell’ufficio da noi», ha detto Bulent Mumay, che dirige la versione online del giornale.
La situazione di Cumhuriyet, comunque, non è unica. Il direttore del sito di news online Diken, Erdal Guven, ha raccontato delle molte volte che l’accesso agli articoli del suo giornale è stato bloccato dall’agenzia turca che si occupa di telecomunicazioni, spesso su spinta del governo: «Di solito ripubblichiamo l’articolo con un nuovo link, che viene bloccato nuovamente. A volte contestiamo la misura in tribunale, ma non ricordo di avere mai vinto una causa». Per Diken i problemi sono molti: un giornalista della testata è sotto processo con l’accusa di terrorismo e gli inserzionisti si sono fatti sempre più rari. «Lo scorso anno una grande società straniera decise di investire in una campagna pubblicitaria di tre mesi. Dopo 11 giorni chiamò e ci chiese di rimuovere immediatamente la pubblicità [sul sito]. Scoprimmo che avevano ricevuto una telefonata», ha raccontato Guven, suggerendo possibili pressioni e intimidazioni del governo sulla società.
Come ha raccontato il Wall Street Journal, negli ultimi due anni la repressione della libertà di espressione non ha colpito solo le redazioni di giornali ma anche i social network e la televisione. Uno dei casi più noti ha riguardato un’insegnante, Ayse Celik, che nel 2016 chiamò in diretta la popolare trasmissione di intrattenimento “Beyaz”. Nei pochi minuti a sua disposizione, Celik espresse la sua preoccupazione per gli scontri violenti che erano in corso tra militari turchi e miliziani del PKK, il Partito curdo dei lavoratori che ha come obiettivo la creazione di uno stato curdo indipendente: «Non voglio che muoiano dei bambini», disse Celik. Fu poi accusata di sostenere il PKK e fu condannata a 15 mesi di carcere. Da allora, per evitare situazioni simili, nel programma “Beyaz” le chiamate da casa vengono trasmesse solo in casi eccezionali e solo dopo un attento controllo della persona che vuole intervenire.
I giornali indipendenti, come Cumhuriyet, stanno cercando di trovare altri modi per sostenersi economicamente, vista la difficoltà a basarsi solo sulle inserzioni pubblicitarie. Per esempio stanno cercando di attirare donazioni da diversi tipi di istituzioni straniere, stanno invitando i lettori a versare un contributo (sul modello del Guardian) e allo stesso tempo stanno per lanciare una versione in inglese del loro giornale, per rivolgersi a un numero più ampio di persone.
L’impressione è che la situazione in Turchia non cambierà nel breve periodo. Il prossimo 24 giugno si terranno le elezioni politiche, inizialmente previste per il novembre 2019 ma anticipate da Erdoğan lo scorso aprile: si rinnoveranno i 600 membri del Parlamento e si eleggerà il nuovo presidente, che molto probabilmente sarà di nuovo Erdoğan. La carica di presidente, inoltre, ne uscirà rafforzata: dopo il voto, infatti, entreranno in vigore le modifiche al sistema istituzionale approvate con il referendum dello scorso anno, che di fatto trasformeranno la Turchia in una repubblica presidenziale. Il referendum, ampiamente sostenuto da Erdoğan, ha sancito un processo già in atto da tempo e accelerato dopo il tentato colpo di stato dell’estate 2016: la graduale trasformazione della Turchia da stato democratico a stato autoritario, con l’arresto di diversi parlamentari di opposizione, il licenziamento di migliaia di insegnanti, militari e altri dipendenti pubblici e, per l’appunto, la chiusura di decine di giornali, radio e televisioni.