Facebook è stato un problema anche nel referendum irlandese
Per via delle pubblicità sul diritto all'aborto, che in molti casi erano finanziate dall'estero e hanno costretto il social network a intervenire
Anche in un paese con solo 3,2 milioni di aventi diritto al voto, come l’Irlanda, il delicato e attuale tema dell’influenza che hanno le pubblicità politiche sui social network è diventato molto rilevante in occasione del referendum dello scorso 25 maggio, con il quale il paese ha abrogato un emendamento che proibiva l’interruzione di gravidanza. Prima del voto, infatti, molti tra osservatori, attivisti e politici si erano detti preoccupati della possibilità che una campagna di disinformazione online potesse influenzare abbastanza persone da determinare il risultato del voto, in un senso o nell’altro. Per questo un gruppo di giornalisti ha messo in piedi un progetto per analizzare le pubblicità politiche su Facebook e segnalare quelle che diffondevano notizie false.
La Transparent Referendum Initiative (TRI), come è stata chiamata, è stata fondata da un gruppo di volontari, che hanno coinvolto 600 persone. Queste persone hanno installato sul proprio browser un plug-in che raccogliesse tutte le pubblicità su Facebook sul referendum, che sono state poi analizzate da un gruppo di venti giornalisti irlandesi in collaborazione con Storyful, una start up irlandese che si occupa di notizie e social network. La TRI ha scoperto una serie di gruppi stranieri antiabortisti che hanno provato a influenzare il referendum irlandese, e hanno portato Facebook e Google a prendere iniziative per contrastare questo tipo di interferenze: il loro intervento ha fatto sì che il processo di verifica e segnalazione fosse più rapido del normale.
Il progetto è stato organizzato dopo i recenti scandali sulle presunte interferenze russe nella campagna elettorale statunitense del 2016 e sulla raccolta dati portata avanti da Cambridge Analytica. Le preoccupazioni riguardo alle interferenze straniere nel referendum irlandese, in ogni caso, non riguardavano solo le pubblicità online. È stato ampiamente documentato, ed era del resto una cosa nota, che entrambi i fronti della campagna elettorale fossero in qualche modo sostenuti da gruppi con sede all’estero.
Amnesty International e l’Abortion Rights Campaign, entrambi per l’abolizione del divieto sull’aborto, sono stati obbligati a restituire delle donazioni rispettivamente di 150mila e 25mila dollari della Open Society Foundations del filantropo ungherese George Soros, noto per il suo sostegno internazionale alle cause liberali e progressiste. Ma è stato soprattutto il fronte antiabortista ad attirarsi critiche per i propri collegamenti con gruppi stranieri, in particolare degli Stati Uniti. Per diversi gruppi conservatori cristiani statunitensi, infatti, la campagna sul referendum irlandese ha rappresentato una specie di battaglia per difendere una delle ultime roccaforti antiabortiste del mondo.
La legge irlandese prevede che tutte le donazioni per campagne elettorali superiori ai 100 euro siano registrate presso un’apposita commissione. Ma soltanto una parte delle pubblicità su Facebook era pagata da gruppi registrati nell’albo ufficiale: il 38 per cento di quelle contro il diritto all’aborto, e il 17 per cento di quelle a favore, non erano registrate o erano finanziate anonimamente. Questo è stato possibile perché l’obbligo irlandese di registrare le donazioni non riguarda quelle investite direttamente in pubblicità online.
Le centinaia di pubblicità raccolte dal TRI sono state rese pubbliche e condivise con diverse testate giornalistiche locali e internazionali, che le hanno analizzate. Secondo il TRI, il 14 per cento dei 280 gruppi che avevano comprato pubblicità su Facebook sul referendum aveva sede all’estero o era irrintracciabile.
Le prime notizie su queste attività provenienti dall’estero sono arrivate tra marzo e aprile. Come hanno ricordato più volte gli attivisti, però, gli unici ad avere piena consapevolezza delle dimensioni del fenomeno erano quelli di Facebook, che non diffonde pubblicamente tutti i dati riguardo alle proprie inserzioni. A maggio inoltrato, a due settimane dal voto, le crescenti pressioni dell’opinione pubblica hanno spinto Facebook a vietare le pubblicità sul referendum provenienti dall’estero. Il giorno dopo, anche Google ha preso una decisione simile, ma ancora più rigida: ha vietato interamente le pubblicità sul referendum sul proprio servizio AdWords.
Foreign Policy ha analizzato circa 400mila tweet pubblicati nei due mesi precedenti al referendum, scoprendo che il 14 per cento degli oltre 165mila tra quelli contenenti l’hashtag antiabortista #Savethe8th proveniva da account con 3 cifre nel proprio nickname e senza indicazione geografica, caratteristiche proprie di molti bot, cioè account finti che pubblicano contenuti automaticamente, e molto utilizzati nelle campagne di propaganda. La percentuale scendeva più o meno della metà, se si consideravano invece gli oltre 265mila tweet con l’hashtag per il sì #Repealthe8th.
Un gruppo di attivisti ha sviluppato per questo un plug-in per oscurare i tweet di oltre 16mila account catalogati come bot o troll: è stato utilizzato da circa 4.500 persone, ma è stato anche accusato di essere uno strumento di censura che aumentava l’effetto-bolla – cioè quello che porta a leggere online soltanto opinioni allineate alla propria – già normale sui social network. La necessità di oscurare i messaggi d’odio e offensivi, però, è derivata anche dalla volontà di proteggere le moltissime donne che hanno condiviso le proprie esperienze personali nella campagna in favore del diritto di scelta, e che spesso hanno subito attacchi misogini.
Anche il Guardian ha analizzato le pubblicità raccolte dalla TRI, concentrandosi però sul linguaggio utilizzato dal fronte antiabortista (per il “no” al referendum) e per quello in favore del diritto all’interruzione della gravidanza (per il “sì”). Ha studiato circa 800 pubblicità, rilevando che il fronte del no ha basato la propria campagna principalmente su un linguaggio emotivo, mentre il fronte del sì ha usato soprattutto termini tecnici e legali.
Tra le parole più usate dagli antiabortisti c’erano “bambino”, “nascituro”, “vita”, e in generale facevano riferimento a concetti come “madri” e “figli”, facendo ricorso spesso a termini con accezioni negative, come “uccidere”. L’altra fazione ha usato invece soprattutto termini come “costituzione”, “campagna” e “emendamento”, e si concentravano su aspetti più legati alla salute e alla libertà di scelta, con un tono generale positivo. Tra gli argomenti più diffusi nelle pubblicità antiabortiste c’era la sindrome di Down, praticamente assente nelle pubblicità per il sì, tra le quali erano invece molto frequenti i riferimenti alle anomalie fetali, che al contrario non comparivano tra le pubblicità antiabortiste. È stato diverso anche il tipo di contenuti promossi su Facebook: gli eventi elettorali rappresentavano il 25 per cento delle cose promosse dalle pubblicità del fronte per il sì, contro il 5 per cento della fazione opposta.
Secondo Foreign Policy, in ogni caso, un paese piccolo come l’Irlanda si presta meno di altri – come gli Stati Uniti, o anche solo l’Italia – alla polarizzazione delle opinioni. La progressiva tossicità del dibattito ha allontanato molti elettori dal fronte più incline ai messaggi negativi e violenti, che era quello antiabortista. Questo, unito all’efficacia delle testimonianze personali condivise pubblicamente – che hanno influenzato il 43 per cento degli elettori, secondo un sondaggio della rete irlandese RTE – sono stati due fattori importanti per la vittoria del sì, arrivata con il 66,4 per cento dei voti.
La decisione di Facebook di vietare le pubblicità dall’estero non è comunque bastata a eliminare le critiche. Come in molti altri casi recenti, da Brexit alle elezioni italiane, il ruolo di una società privata come Facebook in una questione prettamente pubblica come delle elezioni è stato oggetto di ampio dibattito, che è sembrato anche in quest’occasione irrisolvibile. Se da un lato in molti avvertono dei pericoli dell’influenza delle notizie false sugli elettori, dall’altro c’è chi si dice altrettanto preoccupato quando Facebook si propone di censurarle. «Non abbiamo eletto Mark Zuckerberg per prendere decisioni su come dobbiamo fare il nostro referendum», ha detto Gavin Sheridan, co-fondatore di Storyful.