La riforma europea dell’immigrazione è fallita, e non è una buona notizia
Il nuovo governo ha descritto come «una vittoria» la bocciatura della riforma del Regolamento di Dublino, ma il rischio è tenerci le cose come sono oggi
Martedì 5 giugno si è tenuto in Lussemburgo un vertice dei ministri dell’Interno europei che ha rifiutato una bozza di compromesso sulla riforma del Regolamento di Dublino, il collo di bottiglia legislativo che oggi trattiene decine di migliaia di richiedenti asilo in Italia, e che è fra i principali responsabili della crisi degli ultimi anni. Il nuovo ministro dell’Interno italiano, Matteo Salvini, ha definito il fallimento della bozza di compromesso «una vittoria» per l’Italia. La bozza era già stata criticata duramente dal governo precedente, ma è difficile descrivere la decisione di ieri come una «vittoria» visto che se il Regolamento non verrà modificato, l’Italia rimarrà per molti anni nella stessa situazione in cui è oggi.
Il sistema attuale privilegia il cosiddetto criterio del “primo ingresso”, secondo cui ospitare e valutare ciascuna richiesta di protezione internazionale spetta al paese in cui è avvenuto l’ingresso di quella persona nell’Unione Europea. In questo modo i richiedenti asilo sono costretti a rimanere per mesi o anni nei paesi di frontiera – cioè Italia, Grecia e Spagna – in attesa che la loro domanda venga esaminata. La riforma approvata del Parlamento l’anno scorso dopo mesi di dibattito prevede di sostituire questo criterio con un meccanismo obbligatorio di ripartizione dei richiedenti asilo fra i 27 stati dell’Unione. Il numero massimo di richiedenti asilo da ospitare verrebbe stabilito da una quota, diversa per ogni paese, in base al PIL e alla popolazione. La proposta è stata giudicata positivamente dalle associazioni per i diritti umani (alla votazione definitiva al Parlamento Europeo la Lega si astenne, il M5S votò contro).
La riforma approvata dal Parlamento è solo un punto di partenza, non una proposta da prendere o lasciare. La Bulgaria, che ha la presidenza del Consiglio dell’UE fino al 30 giugno, ha cercato per mesi di trovare un compromesso fra la bozza approvata dal Parlamento e le posizioni dei paesi più contrari a una riforma. La loro proposta prevedeva un sistema di quote, ma solo nel caso in cui un certo paese riceva un flusso di richiedenti asilo superiore del 160 per cento rispetto all’anno precedente. La Bulgaria proponeva anche che il sistema attuale fosse mantenuto per i prossimi dieci anni, per dare tempo a tutti i paesi europei di adattarsi.
L’Italia aveva annunciato da tempo di essere contraria: a inizio maggio aveva anche elencato in un documento co-firmato da Grecia e Spagna – gli altri due principali paesi di frontiera – tutte le misure che andavano corrette per trovare un vero compromesso. Il nuovo governo, sostenuto da Lega e M5S, non ha cambiato la linea: al vertice di martedì in Lussemburgo ha votato contro la proposta bulgara insieme alla Spagna e a un sostanzioso blocco di paesi dell’est come Austria, Romania, Slovenia, Slovacchia e Ungheria. La novità è che il nuovo governo italiano sembra voler collaborare proprio con questi ultimi paesi: il giorno prima del vertice in Lussemburgo, Salvini ha detto di avere avuto «una telefonata cordiale con il primo ministro ungherese Viktor Orban: lavoreremo per cambiare le regole di questa Unione Europea».
È una decisione che andrà spiegata, visto che gli interessi di Italia e Ungheria sono molto distanti. L’Italia è uno dei paesi di frontiera a cui l’attuale Regolamento di Dublino lascia l’onere di identificare e accogliere i richiedenti asilo che entrano nel territorio dell’Unione Europea. L’Ungheria guida invece un blocco di paesi a cui il sistema attuale tutto sommato va bene così. È per questa ragione che ha votato contro il compromesso bulgaro. In un certo senso era «poco appetibile per tutti», ha spiegato al Post Mario Savino, che insegna diritto amministrativo all’università della Tuscia (Viterbo) e si occupa spesso di migrazioni: per il paesi come l’Italia e la Grecia era poco conveniente, per il blocco guidato dall’Ungheria era troppo diverso dallo status quo.
I paesi dell’Europa Orientale hanno più o meno le stesse ragioni per opporsi a qualsiasi accordo che comprenda una maggiore accoglienza: hanno popolazioni etnicamente molto omogenee e sono poco abituati alla convivenza con gli stranieri. Per i loro governi, a prescindere dall’appartenenza politica, opporsi all’arrivo dei migranti, e più in generale avere posizioni apertamente razziste, fa guadagnare consensi. «Non consideriamo [i migranti] come richiedenti asilo musulmani; per noi sono degli invasori. Un ampio numero di musulmani porta inevitabilmente a società parallele perché cristiani e musulmani non riusciranno mai ad integrarsi», ha detto di recente Orban.
Queste posizioni hanno già avuto conseguenze pratiche evidenti: basta scorrere i dati sul meccanismo di ricollocamento volontario dei richiedenti asilo messo in piedi dall’UE nel 2015, durante il picco del flusso migratorio attraverso la “rotta balcanica”. Ungheria e Polonia non hanno accettato nessun trasferimento da Grecia e Italia, la Slovacchia ne ha accettati 16 e la Repubblica Ceca 12. Con il Regolamento attuale, l’Unione Europea non ha strumenti efficaci per obbligarli ad accettare richiedenti asilo da altri paesi.
È evidente che gli interessi dei paesi dell’est Europa siano divergenti da quelli del sud come Italia, Grecia e Spagna. Quello che l’Italia considera un buon compromesso per cambiare il Regolamento di Dublino non lo sarà per l’Ungheria, e viceversa. Allearsi con Orban, come sembra voler fare il nuovo governo, significa idealmente accettare la sua linea: non accettare alcun compromesso per tenersi il sistema attuale.
Il rischio esiste. La presidenza bulgara rimarrà in carica fino alla fine di giugno. Negli ultimi sei mesi del 2018 la presidenza del Consiglio dell’Unione Europea toccherà all’Austria, un paese con un governo di destra molto sensibile alle posizioni dei paesi dell’Europa orientale. Herbert Kickl, ministro degli Interni austriaco, ha già fatto sapere che intende proporre un nuovo compromesso che non preveda delle quote obbligatorie di accoglienza, ma un sostanziale rafforzamento delle frontiere dell’Unione. A meno di sorprese, è improbabile che si trovi un accordo su questo tipo di compromesso, ancora più duro di quello bulgaro.
A quel punto sarà troppo tardi per qualsiasi trattativa: a maggio del 2019 ci saranno le elezioni europee, a cui seguiranno il rinnovamento di Parlamento e Commissione. Bisognerà ricominciare da capo. «In astratto si potrebbe ripartire dalla bozza approvata dal Parlamento, ma in concreto più i governi europei vanno a destra più è difficile», ha spiegato Savino al Post.
Qualcuno spera ancora di trovare un compromesso al vertice dei capi di stato europei in programma a fine giugno a Bruxelles. Donald Tusk, il presidente del Consiglio Europeo, aveva detto che in caso di fallimento del compromesso bulgaro avrebbe proposto un piano per un compromesso dell’ultimo minuto. Un diplomatico che ha parlato col Financial Times ha spiegato che al momento ci vorrebbe «un miracolo» per trovare un accordo.