L’omicidio di Soumayla Sacko a San Calogero
Cosa sappiamo della morte del 29enne di origini maliane ucciso da un colpo di fucile alla testa mentre cercava lamiere in una fabbrica abbandonata
La sera di sabato 2 giugno – a San Calogero, in provincia di Vibo Valentia – un uomo di 29 anni originario del Mali e con regolare permesso di soggiorno è morto per una fucilata alla tempia: si chiamava Soumayla Sacko. Le indagini sono condotte dai carabinieri coordinati dalla Procura di Vibo Valentia e la persona che ha sparato non è ancora stata arrestata.
L’omicidio è avvenuto intorno alle otto e mezzo di sera: Soumayla Sacko si trovava con altre due persone originarie del Mali e tutti avevano un regolare permesso di soggiorno. Vivevano nella vicina tendopoli di San Ferdinando, senza luce o acqua potabile e abitata dalle persone che lavorano in nero come braccianti nei campi della piana di Gioia Tauro per pochi euro al giorno. Lo scorso 27 gennaio nella baraccopoli c’era stato un incendio in cui era morta una donna, Becky Moses, di origini nigeriane. Dopo quell’episodio i migranti avevano iniziato a utilizzare le lamiere per ricostruire le baracche.
La sera del 2 giugno Soumayla Sacko – che era piuttosto conosciuto perché collaborava con l’unione sindacale di base per i diritti dei braccianti – e i suoi due compagni stavano facendo proprio questo e si trovavano in una ex fabbrica di mattoni, la Fornace di San Calogero, chiusa da dieci anni per disposizione della magistratura perché ci avevano trovato «oltre 135mila tonnellate di rifiuti pericolosi e tossici, inclusi fanghi altamente inquinanti» precisa Repubblica. Erano arrivati uno in bici e gli altri due a piedi.
Secondo il racconto di uno dei sopravvissuti, Drame Madiheri, 39 anni, a sparare sarebbe stato un uomo sceso da una Panda bianca che ha preso la mira da oltre 70 metri e ha sparato quattro colpi: Drame Madiheri ha anche visto la persona che ha sparato, era piuttosto anziano, bianco, e ha individuato le prime due lettere della targa della sua auto.
Repubblica ha riportato parte del suo racconto: «Con Soumayla eravamo sul tetto e abbiamo sentito un proiettile passarci vicino. Inizialmente non abbiamo capito, poi ci siamo resi conto che qualcuno ci stava sparando addosso». I due sono scappati al piano terra, mentre l’uomo con il fucile ha preso di mira l’altro ragazzo: «Lui era giù, stava spostando delle lamiere. Si è salvato solo perché le portava sulla schiena e hanno attutito l’impatto (…) Quando si è reso conto di non poterlo colpire, quell’uomo ha ricominciato a sparare contro di noi. Sacko è stato colpito alla testa. L’ho visto cadere, poi ho sentito un dolore fortissimo alla gamba». Soumalya Sacko è morto dopo essere stato soccorso da un’ambulanza e trasportato prima all’ospedale di Polistena e poi nel reparto di neurochirurgia dell’ospedale di Reggio Calabria.
Don Pino De Masi, referente di Libera per la Piana di Gioia Tauro, ha spiegato che Soumalya Sacko «è morto perché nei nostri territori qualcuno ha deciso così. In questa terra si muore non solo di ‘ndrangheta, di tumore e di malasanità, ma anche di razzismo». E i rappresentanti sindacali della CGIL locale hanno parlato di «inesistente integrazione e mancata accoglienza degli immigrati nell’area di San Ferdinando».
Su La Stampa di oggi, Nicolò Zancan ha spiegato bene il contesto in cui è avvenuto l’omicidio e di cui ieri si è parlato in modo piuttosto ambiguo: ha raccontato che il posto in cui vivevano i tre ragazzi «si è trasformato in una specie di città», negli anni: «senza acqua, senza bagni, senza regole, senza diritti. Ma piena di esseri umani. Lavoratori. Fino a cinque mila persone nelle pozzanghere d’inverno, nel caldo soffocante d’estate». Nella zona si sono verificati diversi episodi di violenza contro i migranti per cui lo scorso ottobre i carabinieri avevano arrestato quattro ragazzi italiani per aggressioni «con l’aggravante di aver commesso il fatto per finalità di discriminazione e odio razziale»:
«Ad ottobre del 2017, i carabinieri hanno arresto quattro ragazzi che di sera andavano a caccia di neri. Sporgendosi dai finestrini della loro auto, colpivano con delle mazzate i migranti in bicicletta. Nasi spaccati. Braccia rotte. Fratture scomposte. Traumi celebrali con “temporanea perdita di coscienza”. Li facevano cadere in mezzo alla strada come birilli. Li chiamavano “negri”. Molti braccianti, anche nei mesi successivi, hanno raccontato ai medici di Emergency di essere stati investiti da auto che non si sono fermate a soccorrerli».
La maggior parte delle persone che vivono nella tendopoli di San Ferdinando ha un regolare permesso di soggiorno (secondo il sindaco di Rosarno, Giuseppe Idà, «solo il 10%» dei braccianti è irregolare). Ma lì c’è molto più di una tendopoli: c’è un capannone dato in gestione a un’associazione la cui convezione è scaduta per problemi economici, c’è qualche tenda azzurra fornita dal Ministero dell’Interno dopo l’incendio – che però non è sufficiente – e poi c’è un altro capannone abbandonato in cui vivono decine di persone. Il Comune di San Ferdinando, scrive sempre Zancan su La Stampa, è «già stato sciolto per mafia tre volte, non può indire bandi superiori ai 40 mila euro». E dunque la situazione delle migliaia di persone che si trovano lì per lavorare in nero nei campi e che hanno un regolare permesso di soggiorno è disastrosa.
Oggi, lunedì 4 giugno, il sindacato di cui faceva parte Sacko, l’USB, ha convocato uno sciopero generale e una grande assemblea per decidere che cosa fare.