Chi è Pedro Sánchez
Un anno e mezzo fa il leader dei Socialisti spagnoli era dato per finito, ieri è diventato capo del governo: cos'è successo in mezzo?
Il 29 ottobre del 2016 Pedro Sánchez si presentò a una conferenza stampa per annunciare la sua rinuncia al seggio da deputato. Un mese prima era stato estromesso dalla guida del Partito Socialista (PSOE), il principale partito di sinistra in Spagna, a causa delle sue posizioni su un possibile governo guidato dal leader conservatore Mariano Rajoy. Sánchez non voleva a nessun costo dare appoggio – anche indiretto – alla nascita di un nuovo governo Rajoy, mentre buona parte dei dirigenti Socialisti ritenevano che fosse la cose migliore, per evitare una crisi del partito ancora più profonda. Per il PSOE non era un buon periodo: arrivava da sei sconfitte elettorali in poco più di un anno e alle precedenti elezioni politiche, quelle del giugno 2016, aveva ottenuto il peggiore risultato della sua storia.
Pochi giorni prima di quella conferenza stampa, Sánchez era stato messo di fronte a due opzioni: o astenersi nella votazione per la fiducia al nuovo governo Rajoy, come era stato indicato dal partito; oppure votare “no”, di fatto rompendo con il PSOE. Sánchez scelse di non scegliere e optò per una terza opzione: dimettersi da deputato. «Non andrò contro il mio partito, e nemmeno contro il mio impegno elettorale. Lascio il seggio da deputato perché non rinuncio alle mie idee, e perché amo il mio partito. […] E la decisione non è facile», disse, con la voce rotta dall’emozione.
Molti considerarono quel momento come la fine della carriera politica di Sánchez, che fino a poco prima era stato uno dei leader più giovani e promettenti della politica spagnola: il partito l’aveva scaricato e lui si era ritrovato senza seggio e senza leadership. Da allora è passato poco più di un anno e mezzo e le cose sono radicalmente cambiate. Non solo Sánchez si è ripreso la guida del PSOE, stravincendo una votazione interna contro la corrente che lo aveva costretto alle dimissioni, ma ieri è anche diventato primo ministro della Spagna grazie al meccanismo della “mozione costruttiva”, che impone di indicare un primo ministro quando si sfiducia quello in carica. Com’è successo?
Sánchez – 46 anni, originario della provincia di Madrid, ex giocatore di basket, laureato in Economia – ricoprì il suo primo incarico importante nel consiglio municipale della capitale spagnola tra il 2004 e il 2009, anno in cui fu eletto deputato. Divenne leader del PSOE nel luglio 2014, vincendo le prime primarie organizzate dal partito. Non era un buon momento per i Socialisti: due mesi prima c’erano state le elezioni per il Parlamento europeo e il PSOE aveva ottenuto un risultato molto negativo (il 23 per cento dei voti). Sánchez era visto come un’opportunità per cambiare le cose, ringiovanire e rinnovare i dirigenti e le idee del più importante partito di sinistra nel paese: per il suo aspetto fisico era soprannominato el guapo, “il bello”, ma non veniva considerato particolarmente carismatico. Nel settembre del 2014 fu invitato alla Festa dell’Unità del PD a Bologna, dove si fece fotografare tra gli altri con Matteo Renzi, che allora era considerato in Europa come il simbolo della riscossa di una sinistra blairiana e centrista.
Le prime elezioni generali di Sánchez segretario, quelle del dicembre 2015, andarono molto male e il PSOE ottenne il peggior risultato della sua storia fino a quel momento: 22 per cento dei voti, molto vicino al 20 per cento di Podemos, il partito nato poco tempo prima e con l’ambizione di diventare la prima forza politica di sinistra in Spagna. Sfruttando un Parlamento molto frammentato, Sánchez provò a formare un governo, dopo che il Partito Popolare (PP) di Mariano Rajoy non ci era riuscito. Fallì e nel giugno 2016 si votò di nuovo. Per il PSOE fu una nuova sconfitta, ma non una disfatta: fece peggio delle elezioni di sei mesi prima ma riuscì a evitare il sorpasso di Unidos Podemos (cioè la coalizione tra Podemos e altre forze di sinistra), che invece era data avanti nei sondaggi pre-elettorali. Nel settembre dello stesso anno arrivò un’altra batosta, questa volta alle elezioni locali in Galizia e nei Paesi Baschi. Sembrava che per Sánchez la carriera politica ad alti livelli fosse finita.
Nei mesi successivi Sánchez fu protagonista di uno scontro interno al PSOE con la corrente guidata da Susana Díaz, governatrice dell’Andalusia, una delle Comunità autonome da cui è formata la Spagna. Sánchez – che era considerato il responsabile delle sconfitte elettorali – continuava a opporsi all’idea di sostenere in qualche modo un governo Rajoy, ma fu messo in minoranza nel Comitato federale del partito e l’1 ottobre 2016 si dimise da segretario. Un mese dopo rinunciò anche al suo seggio di deputato.
Nonostante le sconfitte e le dimissioni, Sánchez rimase dentro al PSOE con l’obiettivo di ripresentarsi come candidato alla segreteria del partito e di vincere la votazione interna fissata per maggio 2017. Ci riuscì: i militanti del PSOE premiarono la sua opposizione a qualsiasi tipo di governo guidato da Mariano Rajoy – che però nel frattempo era entrato in carica – e la resistenza alla “vecchia guardia” Socialista. Sánchez si riprese la leadership del PSOE con il 50 per cento dei voti, contro il 40 di Susana Díaz e il 10 di Patxi López. I consensi elettorali verso il partito non sembrarono però migliorare, anzi.
Negli ultimi mesi il PSOE ha dovuto prendere decisioni importanti riguardo una delle crisi più gravi della Spagna democratica, cioè la dichiarazione di indipendenza unilaterale pronunciata dall’ex presidente catalano Carles Puigdemont. Sánchez è stato costretto a fare scelte difficili, come quella di appoggiare in toto il governo Rajoy sul “commissariamento” della Catalogna (cioè l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione spagnola), e di prendere occasionalmente le distanze dalla sezione catalana del PSOE, il PSC. Sánchez è riuscito comunque a tenere botta, sfruttando soprattutto il fatto che anche l’altro grande partito di sinistra a livello nazionale, Podemos, è uscito dalla crisi catalana con le ossa mezze rotte. C’è anche un altro fatto però: Sánchez ha saputo sfruttare meglio di altri l’estrema debolezza del PP e la lunghissima serie di scandali che negli ultimi anni hanno colpito il partito di Mariano Rajoy.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la serie di condanne arrivate per il cosiddetto “caso Gürtel”, l’enorme scandalo che ha coinvolto diversi uomini d’affari vicini all’imprenditore spagnolo Francisco Correa e molti esponenti del PP. Le condanne hanno riguardato diversi tipi di reati, tra cui corruzione, riciclaggio di denaro ed evasione fiscale, e hanno rivelato un’ampia rete di attività criminali legate per lo più a finanziamenti illegali del PP, soprattutto nelle comunità autonome di Madrid e Valencia. Subito dopo la condanna, pronunciata lo scorso 24 maggio, Sánchez ha cominciato a fare pressioni nel suo partito per presentare una mozione di sfiducia contro il governo Rajoy.
L’iniziativa ha pagato. Giorno dopo giorno Sánchez ha raccolto l’appoggio di Podemos e soprattutto dei nazionalisti baschi e degli indipendentisti catalani, a cui ha promesso un dialogo «all’interno della Costituzione». È riuscito a far votare la sfiducia al governo di Rajoy a 180 deputati, 4 in più della maggioranza assoluta, nonostante con il suo partito controlli solo 84 seggi. È diventato automaticamente primo ministro. Ha detto che convocherà elezioni anticipate ma non ha fissato la data e non è chiaro se lo farà davvero o se andrà avanti fino alla fine della legislatura, nel 2020.