Cinque cose che non sapete sulla storia di “Wild Wild Country”
Cioè sul documentario su Osho: raccontate dall'autrice televisiva Roberta Lippi, che ne ha messe insieme cento in un ebook
Se l’avete guardata tutta, è probabile che la serie documentaria di Netflix Wild Wild Country, quella dedicata alla storia del predicatore indiano Bhagwan Shree Rajneesh, detto Osho, e della comunità che fondò nella contea di Wasco, in Oregon, vi abbia incuriosito moltissimo spingendovi a cercare su Google alcune risposte che la serie non fornisce. Tra le persone che l’hanno fatto c’è l’autrice televisiva e radiofonica Roberta Lippi, che ha anche intervistato un seguace di Osho e una residente di Portland che aveva 18 anni quando Osho arrivò in Oregon. Le interviste e il risultato delle indagini di Lippi fatte su giornali e documenti dell’epoca sono raccolti nell’ebook Wild Wild Sheela, pubblicato da Imprimatur: il sottotitolo è Le cento cose che Wild Wild Country non vi ha detto e state cercando su Google. Pubblichiamo cinque di queste cose, nel libro ce ne sono molte di più: se non avete guardato la serie e volete farlo, sappiate che contengono spoiler.
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Il ricco e il povero
È il grande dilemma. Bhagwan non ha mai fatto mistero della sua ammirazione per i ricchi. Perché i ricchi sono coloro che, avendo tutto, possono occuparsi dell’illuminazione. Diceva che, se la tua principale preoccupazione è come procacciarti cibo, non puoi arrivare all’illuminazione, perché sei distratto da altro. Eppure Osho sostiene di non possedere nulla. Tutto quello che possiede appartiene alla comune, ed è la comune che gli consente di gioire del lusso.
Negli anni Settanta a Pune, l’Ashram aveva due casseforti: una per il denaro contante, i lingotti d’oro e i gioielli dati in dono a Bhagwan. Un’altra per una scorta di cioccolata svizzera (sempre gestita dall’italiana Deeksha). Bhagwan amava collezionare oggetti costosi: asciugamani monogrammati, penne d’oro, gemelli, orologi preziosi. Ma quello che voleva più di tutto erano le Rolls Royce.
In risposta a una coppia di sannyasin australiani che dopo tre anni nella comune lo aveva accusato di essersi comprato decine di Rolls Royce grazie al loro lavoro, Osho rispose: «Il loro lavoro non portava soldi. Il loro lavoro consisteva nel fabbricare la propria stessa casa e le strade. Tutte cose per cui serviva denaro, ma che non producevano denaro. Le Rolls Royce non sono state prodotte dalla comune. Erano regali dall’esterno, arrivavano da tutto il mondo. E io non ero il loro proprietario, erano proprietà comuni, e infatti le ho lasciate alla comune. Non ho mai posseduto nulla. Ma deve esserci stato un momento in cui qualcuno ha pensato che lui stesse guadagnando denaro e io lo stessi sprecando. Questo è il risentimento. Ma quali soldi stavi guadagnando? In realtà avevi bisogno di soldi per costruire case, per costruire strade, per fare una diga da due milioni e mezzo di dollari. Stavi contribuendo con il tuo lavoro, ma non stavamo creando denaro per poter acquistare Rolls Royce.
Non ho acquistato nulla con i soldi prodotti dalla comune perché la comune non ha mai prodotto soldi. La comune assorbiva soldi. In effetti tutte le mie royalties, tutti i miei libri, tutti i profitti andavano alla comune. La situazione dunque è esattamente opposta: sono io che ho dato tutto alla comune. Quattrocento libri in diverse lingue portavano milioni di dollari in royalties e quei diritti andavano alla comune. Se avessi voluto acquistare Rolls Royce, avrei potuto acquistarne di mie solo con i soldi dei diritti. Nella comune abbiamo investito duecento milioni di dollari. Quei sannyasin forse pensano di aver portato lì duecento milioni di dollari! Senza di me e le persone che mi amano in tutto il mondo, quei duecento milioni di dollari non sarebbero stati possibili».
Osho ha anche un modo semplice per spiegare il paradosso, e lo fa parlando di un altro detrattore: «Ho ricevuto una lettera da un vescovo della contea di Wasco, uno di quelli che aveva passato quasi cinque anni condannando le mie Rolls Royce. In ogni sermone della domenica invece di parlare di Gesù, parlava di me e delle mie Rolls Royce. Il giorno della mia partenza mi scrisse una lettera, “Ora che te ne vai, sarebbe una grande gentilezza da parte tua se potessi donare una Rolls Royce a questa chiesa.” È qui che si vede l’uomo. Gli risposi “Le vuoi tutte e 93 o una sola?”. E arrivò una lettera: “Se puoi darle tutte 93, questa sarebbe la cosa giusta, sei davvero grande, sono molto dispiaciuto di averti condannato per cinque anni, sei un uomo da adorare”. È un mondo molto strano se capisci le persone: qualunque cosa stiano dicendo mostra molto di più su di loro di quanto dicano della persona di cui parlano».
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Sheela
Sappiamo già molto di Sheela. Ma non tutto.
Nata il 28 dicembre 1949 a Baroda, in India, era la più giovane di sei figli di una coppia borghese. La casa di famiglia era un riferimento per filosofi e mistici vagabondi e il giovane Bhagwan fu uno dei primi ospiti.
Nel 1967 Sheela si reca per la prima volta con suo padre a una conferenza di Rajneesh, poi si trasferisce negli Stati Uniti per studiare. Nel 1969 sposa Marc Harris Silverman, affetto dal tumore di Hodgkin.
Nel 1972 Sheela e Silverman fanno il loro primo viaggio a Pune e diventano sannyasin. Sheela si trasferisce nell’ashram nel 1975 e, partita dalle cucine, in un anno s’inventa la Banca dell’Ashram, che si occupa di cambiare le valute estere. Velocemente diventa l’assistente di Yoga Laxmi, la segretaria personale di Rajneesh, una donna devota e dai modi gentili. Lei e Bhagwan definiscono Sheela “una bomba atomica”. Così, mentre Laxmi si sbatte in giro per l’India alla ricerca del famoso posto che il governo non le vuole dare, Sheela “guadagna terreno” in un altro modo. Il primo marito muore e lei si risposa con Swami Prem Jayananda, nato John Joseph Shelft, un ex funzionario di banca del New Jersey grazie al quale chiude l’accordo da quasi 6 milioni di dollari per il ranch, cosa che le permette di spodestare la fidata Laxmi e diventare la nuova segretaria di Osho.
Quello che accade in mezzo lo sappiamo. Quello che non sappiamo, però, è che Sheela – secondo un sito svizzero – si è risposata nel 1984, ovvero prima fuggire ed essere condannata, acquisendo così la cittadinanza grazie a Urs Birnstiel, responsabile della comune Rajneesh di Zurigo. Suo marito muore di Aids, mentre Sheela è incarcerata negli Stati Uniti. Molti altri invece sostengono si sia sposata all’uscita dal carcere, proprio per ottenere l’immunità e che il marito morì poco dopo.
Dopo aver scontato la pena, Sheela lascia gli Stati Uniti per la Germania, dove lavora. Lavorerà anche Portogallo, ma sceglierà di stabilirsi definitivamente in Svizzera nel 1989, quando scopre che le autorità americane la stanno cercando per processarla e accusarla di nuovi reati.
«La prigione è stata la mia più alta qualifica e non la considero tempo perso. Ho imparato la pazienza lì. Ho anche imparato il valore del tempo e ad accettare meglio la mia realtà. Queste sono qualità che uso nel mio lavoro».
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Ma Yoga Vivek aka Ma Prem Nirvano
C’è un’altra grande assente nel documentario. Si tratta di una donna che a differenza di Laxmi è sempre stata a Rajneeshpuram, anche se si sa che lo detestava: Vivek, la compagna di Osho per diciotto anni. L’unica che non aveva bisogno di intercessioni con segretarie varie per parlare con lui.
Vivek, il cui nome era Christine Wolf Smith, iniziò la sua relazione con Osho a vent’anni e non lo lasciò fino alla morte. È conosciuta con due nomi perché alcuni sannyasin cambiarono nome per evitare di venir fermati ai controlli degli aeroporti indiani.
Lei stessa racconta in un’intervista di essere arrivata da lui nel 1971, dopo aver seguito un sannyasin che conobbe a Francoforte. Lasciò il lavoro e vendette il suo appartamento, partendo in preda a una attrazione verso un mondo che non conosceva. Atterrata a Bombay si pentì quasi subito. La trascinarono a una meditazione dinamica e lei passò il tempo a cercare di nascondersi. Finché qualcuno non le disse: «Il maestro si è accorto che non stai facendo niente! Vuole vederti alle 15.30». Nell’incontro Vivek capì che c’era qualcosa di molto particolare tra loro e quando lui il giorno dopo le disse «vivrai con me», lei sentì una connessione che arrivava da lontano. Con Bhagwan, Vivek sperimenta l’esperienza del ricordo di diverse reincarnazioni.
Un giorno Bhagwan la fece chiamare da Laxmi e le chiese: «Ti ricordi di me? Ti ricordi qualcosa su di me?» e lei rispose «Ricordo che sei una persona che ho amato molto».
Osho vedeva in lei la reincarnazione della sua prima fidanzatina, Sashi, morta nel 1947. I due iniziarono a vivere insieme quando aprì il centro di Pune.
È stata una figura fondamentale nella vita del guru. Abitava con lui e gli era sempre accanto. In qualche modo gli ha fatto anche da badante per via delle sue precarie condizioni di salute. Vivek è presente in una miriade di foto di Osho, ma in pochissimi frame del documentario. È senz’altro lei la donna vestita di bianco che vede il piccolo Tim Guest [autore dell’auotobiografia My Life in Orange, ndr] accanto alla piscina. Lo seguiva in tutte le sue corse in auto ed era con lui durante tutti gli incidenti. Aveva paura e spesso si era fatta male.
Era devota, ma di carattere, e si sa che in diverse occasioni ebbe modo di scontrarsi sia con Laxmi che con Sheela. Non per niente, altro dato che il documentario passa in cavalleria, era sulla lista delle persone che Sheela voleva uccidere.
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La sterilizzazione
A causa di tutto questo sesso libero, all’interno dell’Ashram veniva consigliata la sterilizzazione. Questo è il motivo per il quale nell’intero periodo di Rajneeshpuram non c’è menzione di una sola nuova nascita.
Nel suo libro, Sheela racconta che Vivek rimase incinta per dare una lezione a Osho e che lui la fece abortire e le impose la sterilizzazione. Parallelamente Jill Franklin racconta che anche Sheela fu sottoposta a un’isterectomia, così come tutte le persone che ricoprivano posizioni di rilievo. Anche alcuni uomini si sottoposero a vasectomia. La sterilizzazione non era un obbligo, ma si diceva agli adepti che era consigliata per non perdere tutto il lavoro che si era fatto su se stessi.
La questione della sterilizzazione e degli aborti era fondamentale già dai tempi di Pune per evitare il sovraffollamento all’interno dell’ashram.
Anche Jane Stork (Shanti B.) ha confermato che lei e sua figlia sono state sterilizzate.
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Sheela non si toglieva mai le scarpe
A proposito di guardaroba, c’è una curiosità che porta alla luce Franceschini [Enrico Franceschini, giornalista di Repubblica, visitò l’ashram per un reportage]: «Abbiamo chiesto a Sheela come mai lei è l’unica che non si toglie mai le scarpe (qui lo fanno tutti appena entrano in casa, all’indiana). Così siamo diventati simpatici al braccio destro di Bhagwan. “Non me lo aveva mai chiesto nessuno. Tengo le scarpe, per proteggere i miei piedini, che sono bellissimi e delicatissimi”. E ci ha fatto toccare per credere. Presa per i piedi, la tigre di Rajneeshpuram è diventata un agnellino».