Come funziona la messa in stato d’accusa del presidente della Repubblica
È la complicata procedura annunciata da Di Maio contro Mattarella, ma non sembrano esserci le basi per parlarne seriamente
Dopo la crisi istituzionale cominciata ieri sera con la rinuncia all’incarico di presidente del Consiglio di Giuseppe Conte, dovuta all’opposizione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla nomina di Paolo Savona come ministro dell’Economia, Luigi Di Maio ha detto che chiederà la “messa in stato d’accusa” di Mattarella. Il leader della Lega Matteo Salvini, che insieme al M5S aveva coordinato la formazione del governo Conte, fin qui non ha seguito Di Maio su questa strada: forse perché estrema e senza precedenti, e forse perché, per come stanno le cose, sarebbe molto improbabile avesse successo.
L’accusa a Mattarella – che è anche un ex giudice della Corte Costituzionale – sarebbe, in breve, di aver abusato dei suoi poteri opponendosi al nome scelto per un ministero da due partiti che rappresentano la maggioranza del Parlamento, pur non essendosi presentati alle elezioni come alleati. In realtà l’opinione più condivisa dai costituzionalisti di ogni orientamento è che Mattarella abbia agito entro i limiti delle sue prerogative costituzionali, che prevedono che sia il presidente della Repubblica a nominare i ministri su proposta del presidente del Consiglio. Lo ha ribadito oggi al Corriere della Sera Massimo Luciani, costituzionalista e presidente dell’Associazione costituzionalisti italiani, che ha aggiunto che Mattarella «ha ritenuto che la scelta di un certo ministro per una posizione chiave del governo mettesse a rischio gli interessi del nostro paese. Questa è una valutazione istituzionale».
Il comportamento di Mattarella può essere criticato per la sua opportunità politica ma non per la sua costituzionalità, anche perché ci sono stati almeno tre precedenti analoghi negli ultimi 25 anni, con protagonisti tre presidenti diversi: nel 1994 Oscar Luigi Scalfaro con Cesare Previti alla Giustizia; nel 2001 Carlo Azeglio Ciampi con Roberto Maroni alla Giustizia; e nel 2014 Giorgio Napolitano con Nicola Gratteri, sempre alla Giustizia. Ciononostante, Di Maio ha annunciato la volontà di mettere in stato d’accusa Mattarella, e lo stesso aveva fatto poco prima la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni.
È interessante ricordare che già nel 2013 il M5S aveva a lungo parlato della stessa cosa, ma riguardo Napolitano: allora il leader del partito era ancora Beppe Grillo, e l’accusa era di aver abusato dei suoi poteri nominando il governo Letta (peraltro in circostanze simili a quelle del governo Conte: un’alleanza parlamentare tra partiti che erano avversari in campagna elettorale). Anche in quel caso non c’era nessuna base costituzionale all’accusa, di cui infatti non si fece niente. Nel 2013 si parlava di questa possibilità con il termine “impeachment”, la parola inglese che fa riferimento a un concetto giuridico esistente negli Stati Uniti (storicamente associato ai presidenti Richard Nixon e Bill Clinton). Nel linguaggio giornalistico italiano, però, è usata per definire una procedura prevista dalla Costituzione con la quale il Parlamento può mettere il presidente della Repubblica in stato d’accusa, ma solo in alcuni rarissimi casi.
L’articolo 90 della Costituzione dice infatti che «Il presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione». Sono quindi soltanto questi i reati imputabili al capo dello Stato che ne prevedono le dimissioni forzate. Di Maio, domenica sera, ha parlato del primo: un reato di cui è difficile dare interpretazioni precise, visto che non è mai stato applicato al presidente della Repubblica, ma che prevede un qualche tipo di comportamento doloso che pregiudichi gli interessi nazionali, che rappresenti una violazione del dovere di fedeltà ai cittadini, o che sovverta l’ordine dello Stato. Cesare Pinelli, ordinario di Diritto Costituzionale alla Sapienza, ha detto all’AGI che parlare di questi reati in riferimento alle decisioni di Mattarella «non sta né in cielo né in terra».
Perché inizi quello che sarebbe un processo al presidente della Repubblica, la procedura è molto complessa e prevede diversi passaggi. Innanzitutto deve essere presentata formalmente una richiesta di messa in stato d’accusa al presidente della Camera, corredata da tutto il materiale probatorio che la sostenga. Il presidente della Camera trasmette poi il materiale a un apposito comitato, formato dai componenti della giunta del Senato e da quelli della giunta della Camera competenti per le autorizzazioni a procedere (i cui membri sono nominati dai presidenti delle Camere, e devono rappresentare tutte le forze politiche). Il comitato è presieduto dal presidente della giunta del Senato o da quello della Camera, una legislatura a testa, e può anche promuovere d’ufficio un’indagine sul presidente della Repubblica, di sua iniziativa.
Il comitato valuta la legittimità dell’accusa e dopo aver raggiunto un verdetto – votato a maggioranza – presenta una relazione al Parlamento riunito in seduta comune. Oltre ai relatori scelti dal comitato, il regolamento concede ad altri membri del comitato di presentare relazioni di minoranza. Il rapporto esposto al Parlamento contiene le decisioni del comitato, che può scegliere di archiviare il caso se ritiene che le accuse siano infondate o non corrispondano a quelle stabilite dall’art. 90, oppure di avviare la votazione in aula della messa in stato d’accusa.
In entrambi i casi il presidente della Camera riunisce nuovamente il Parlamento in seduta comune, che questa volta dovrà esprimersi sull’autorizzazione a procedere. Se il comitato ha deliberato di archiviare il caso, la decisione viene approvata senza il passaggio del voto. Se invece la relazione propone la messa in stato d’accusa, il Parlamento la vota a scrutinio segreto, e la approva se raggiunge la maggioranza assoluta a favore.
Con l’autorizzazione a procedere del Parlamento, la questione passa alla Corte Costituzionale, alla quale per questa particolare circostanza vengono affiancati 16 membri aggregati, estratti a sorte da un elenco di persone aventi i requisiti per fare i senatori, e che viene compilato dal Parlamento ogni nove anni. Il Parlamento elegge anche dei rappresentanti dell’accusa, che in pratica faranno da pubblici ministeri durante le sedute della Corte. È quindi la Corte costituzionale così composta che infine decide se applicare la sentenza rendendola inappellabile.
È una procedura lunga e complicata e perché arrivi alla conclusione è necessario che un’ampia maggioranza delle forze politiche la sostenga. Per questo in Italia non si è mai proceduto effettivamente con una messa sotto accusa del capo dello Stato. Spesso, però, i partiti hanno usato questa minaccia per obiettivi politici intermedi o per cercare di ottenere le dimissioni spontanee del presidente. Il PCI minacciò la messa in stato d’accusa del presidente Giovanni Leone, da tempo accusato di presunta complicità nello scandalo Lockheed, per cui poi dovette dimettersi. Nel 1991, invece, fu il PDS (assieme ad altri partiti di opposizione) a chiedere che il presidente Francesco Cossiga fosse messo sotto accusa. Le motivazioni erano molto simili a quelle che il M5S aveva mosso a suo tempo contro Napolitano: Cossiga, secondo i firmatari della richiesta, aveva superato i limiti del suo ruolo per «modificare la forma di governo», aveva avviato «l’esercizio di una propria funzione governante» e assunto comportamenti da «capo di un partito».