Cosa succede ora alle aziende europee che fanno affari in Iran?
Dopo il ritiro degli Stati Uniti dall'accordo sul nucleare iraniano la situazione si è complicata, e per l'UE non sono buone notizie
L’Unione Europea ha annunciato venerdì scorso un pacchetto di misure per contrastare le nuove sanzioni che gli Stati Uniti hanno detto che imporranno all’Iran, come passo successivo alla loro uscita dall’accordo sul nucleare iraniano. Il piano, che è stato rivelato dalla Commissione europea, permetterà ai paesi della UE di continuare a fare affari con l’Iran: e di fatto salvare l’accordo sul nucleare faticosamente firmato nel 2015 dopo anni di negoziati. Tra le altre cose il piano prevede la riattivazione del cosiddetto “blocking statute”, un regolamento risalente agli anni Novanta che, almeno sulla carta, dovrebbe permettere alle aziende europee di ignorare le nuove sanzioni statunitensi all’Iran senza il rischio di essere a loro volta penalizzate.
Il piano della Commissione europea, le ambizioni delle aziende che negli ultimi due anni hanno cominciato a investire in Iran, i rapporti sempre più tesi tra Europa e Stati Uniti, sono argomenti che si intrecciano tra loro e sono diventati centrali nel dibattito politico ed economico a Bruxelles e a Washington, ma anche in diverse capitali europee. La questione non è per niente semplice, soprattutto per la complessità dei meccanismi usati per applicare le sanzioni statunitensi all’estero e per i delicati equilibri che l’accordo sul nucleare iraniano sta mettendo sempre più sotto pressione. Andiamo con ordine.
Nelle ultime settimane il presidente statunitense Donald Trump ha minacciato di imporre nuove sanzioni all’Iran, ancora più dure di quelle già imposte in passato. Le minacce sono arrivate dopo l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano, il quale prevede una serie di misure per limitare e controllare il programma nucleare sviluppato in Iran in cambio della rimozione di tutte le sanzioni economiche, a eccezione di quelle imposte per il sostegno del governo iraniano a gruppi considerati estremisti e terroristi, come il partito libanese Hezbollah. La decisione di Trump di tirarsi fuori dall’accordo è stata molto criticata sia dall’Unione Europea, che aveva attivamente partecipato ai negoziati, sia dal governo iraniano del presidente moderato Hassan Rouhani, il quale ha subìto molte critiche interne per “essersi fidato” degli Stati Uniti.
Il punto della questione è stato fin da subito uno: può l’accordo sul nucleare iraniano sopravvivere nonostante il ritiro e l’opposizione degli Stati Uniti? Possono le aziende europee continuare ad espandere il loro giro di affari in Iran senza il pericolo di essere sanzionate? La risposta non è semplice, anche perché dipende in buona parte dalla particolare struttura delle sanzioni americane, molto diversa da quella delle sanzioni europee.
Come ha spiegato l’Economist, il problema delle sanzioni americane risiede nella loro “extraterritorialità”. Mentre le sanzioni europee possono essere applicate solo alle aziende e ai cittadini europei, per quelle statunitensi il discorso è diverso, perché sono fatte da due componenti. C’è una componente primaria che si applica a cittadini e aziende americane, a cui è imposto il divieto di commerciare e di sbloccare i conti di particolari individui del paese che si vuole colpire. C’è poi una componente secondaria, extraterritoriale, che si rivolge a soggetti non americani: prevede che qualsiasi società, ovunque abbia la sede, debba rispettare le sanzioni americane quando vengono usati i dollari per compiere le transazioni, e quando le stesse aziende hanno succursali negli Stati Uniti o sono controllate da americani.
Il risultato è che alcune grandi aziende europee proveranno ad aggirare i limiti imposti per esempio facendo le transazioni direttamente in euro, ma potrebbe non bastare. I margini di manovra della UE per proteggere le sue aziende, ha scritto l’Economist, sono molto limitati. I problemi sono essenzialmente due, entrambi importanti.
Il primo riguarda direttamente il piano annunciato dalla Commissione europea per prevenire il collasso dell’accordo sul nucleare, scenario praticamente inevitabile in caso di fuga delle aziende europee arrivate in Iran dopo la firma dell’accordo. Al centro del piano c’è la riattivazione del cosiddetto “blocking statute”, una misura usata dall’Europa nel 1996 per neutralizzare gli effetti extraterritoriali delle sanzioni americane sulle società europee che volevano investire in Libia, Iran e Cuba, tutti paesi allora presi di mira dagli Stati Uniti. La misura fu introdotta per tutelare i cittadini europei danneggiati dalle aziende che decidevano di rispettare le sanzioni extraterritoriali: quindi se un’azienda stava facendo affari in Iran non poteva smettere nel caso in cui la motivazione fosse stata legata agli effetti delle sanzioni americane. Il fatto è che da allora a oggi sono stati pochi i paesi europei ad avere adottato leggi nazionali per implementare la misura, e solo uno, l’Austria, ha iniziato un procedimento contro una società che ha violato il “blocking statute” – procedimento peraltro poi abbandonato.
Inoltre c’è da considerare che molte grandi aziende europee con interessi globali potrebbero decidere di rinunciare comunque al mercato iraniano, per evitare di vedere i loro affari con gli Stati Uniti indeboliti dalle sanzioni. Jason Hungerford, partner dello studio legale internazionale Norton Rose Fulbright, ha detto al Financial Times: «In passato quando le più grandi società non americane hanno dovuto scegliere tra rispettare il “blocking statute” dell’Unione Europea o rispettare le sanzioni americane hanno scelto praticamente sempre di rispettare le sanzioni americane».
Il secondo problema è che, anche aggirando le nuove sanzioni che l’amministrazione americana ha minacciato di imporre all’Iran, gli spazi di movimento per le aziende europee continueranno a essere molto pochi. Come detto, anche durante gli ultimi tre anni, quando gli Stati Uniti erano dentro all’accordo sul nucleare, prima Obama e poi Trump hanno continuato a tenere in piedi le sanzioni legate all’appoggio da parte del governo iraniano di gruppi considerati terroristici. I soggetti più colpiti da queste sanzioni sono stati i soldati delle Guardie rivoluzionarie, un corpo militare iraniano d’élite molto vicino agli ambienti più conservatori del regime e legato direttamente ad Ali Khamenei, la Guida suprema, la carica politica e religiosa più importante del paese. Il fatto è che le Guardie rivoluzionarie, oltre a essere molto presenti fuori dai confini nazionali, sono potentissime e dominano i settori più strategici dell’economia iraniana: per molte aziende europee fare affari in Iran comporta il rischio di imbattercisi, che significa ogni volta il rischio di essere colpite a loro volta dalle sanzioni americane.
Diversi analisti pensano che la questione in ballo in tutta questa storia non riguardi solo le sanzioni americane all’Iran e le mosse dell’Unione Europea per tutelare le proprie aziende. «Riguarda quello che sono oggi le relazioni transatlantiche», ha detto Cornelius Adebahr, un esperto di Iran del think tank Carnegie Europe.
Le tensioni sull’Iran non sono state le prime degli ultimi mesi tra Unione Europea e Stati Uniti: in mezzo ci sono state anche le polemiche per le minacce di Trump di iniziare una guerra commerciale con l’Europa e la crisi dovuta allo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Di recente i ministri e politici europei che hanno fatto dichiarazioni dure contro l’amministrazione americana sono stati diversi, tra cui Bruno Le Maire, ministro delle Finanze francese, che ha detto alla radio Europe-1 che l’Europa non dovrebbe accettare lo status di “vassallo” degli Stati Uniti. Sia la cancelliera tedesca Angela Merkel che la prima ministra britannica Theresa May hanno criticato la decisione di Trump e hanno ribadito che i rispettivi paesi continueranno a ritenersi vincolati all’accordo con l’Iran.
Il problema, hanno fatto notare nelle ultime settimane diversi esperti, è che un conto è minacciare di fare qualcosa, un altro è avere la forza e la volontà di dare seguito alle minacce. Non sembra che oggi l’Europa sia in grado di sfidare apertamente gli Stati Uniti su un tema del genere. Come ha detto il presidente francese Emmanuel Macron la scorsa settimana, non ci saranno forzature: non c’è in Europa il desiderio di colpire le aziende americane come ritorsione per eventuali sanzioni a società europee, e l’impressione è che nessun governo si impegnerà davvero a obbligare le proprie aziende a stare in Iran, nel caso vogliamo andarsene.