Italiani a Hollywood negli anni Venti
Li racconta una mostra al Museo Ferragamo a Firenze, tra oggetti di scena, fotografie, filmati e scarpe
Venerdì 25 maggio il Museo Ferragamo di Firenze apre la sua nuova mostra annuale, L’Italia a Hollywood, che racconta con filmati, fotografie, costumi di scena e canzoni la comunità italiana nella California di inizio Novecento, e le sue influenze nel mondo della musica, dell’artigianato, dell’architettura, dell’arte e in particolare del cinema. La mostra prende spunto dalla biografia di Salvatore Ferragamo, che visse negli Stati Uniti dal 1915 al 1927, prima brevemente a Boston, poi a Santa Barbara e infine a Hollywood: qui aprì, davanti all’Egyptian Theatre, dove si tenevano le première cinematografiche, l’Hollywood Boot Shop, una boutique in cui creava scarpe per famosi registi come David Wark Griffith e Cecil B. DeMille, e per star come Rodolfo Valentino, Mary Pickford, Pola Negri, Charlie Chaplin, Joan Crawford e Lillian Gish. Sarà aperta fino al 10 marzo 2019, ogni giorno dalle 10 alle 19:30.
La vita e l’opera di Ferragamo sono un punto di partenza e uno spunto per raccontare un pezzo della storia e della cultura italiana che potrebbe interessare anche chi non si occupa di scarpe e moda. Come ha spiegato al Post Stefania Ricci, curatrice dell’esibizione insieme a Giuliana Muscio e direttrice del museo: «Essere soltanto un museo aziendale è autoreferenziale. Se ci limitassimo all’archivio, una persona che ci è già venuta non ci ritornerebbe perché penserebbe di trovare sempre le stesse cose. Con questa formula anche l’archivio diventa vivo; attraverso questa storia sono venuti fuori studi che altrimenti sarebbero rimasti confinati solo agli addetti ai lavori e ai convegni. È un’occasione per fare cultura ed è anche un’occasione per intessere relazioni con musei, fondazioni, prestiti, studiosi, istituzioni italiane e internazionali che fanno diventare il museo parte della vita culturale». Il museo Ferragamo, aperto nel 1995, si propone come punto di riferimento per l’arte, la storia e la cultura italiana gestito e finanziato da un’azienda di moda, come anche la Fondazione Prada e l’Armani Silos a Milano.
L’esposizione è suddivisa in otto sale allestite da Maurizio Balò che, racconta Ricci, ha fatto un lavoro di ricerca fotografica per ricostruire uno studio cinematografico hollywoodiano degli anni Venti, tra luci dei camerini, ciak, pellicole giganti e piccole stanzette come quelle dove ci si cambiava o si veniva truccati. La prima sala è dedicata ai primi anni della comunità italiana in California e in particolare all’Expo di San Francisco del 1915 con il padiglione dell’Italia progettato dall’architetto Marcello Piacentini, che vinse il primo premio; raccoglie stampe, sculture, quadri futuristi, filmati e riprese di ville architettoniche progettate o rifinite da architetti italiani.
La sala successiva racconta l’influenza nel cinema muto italiano, che insieme a quello francese era il punto di riferimento del tempo: si trattava soprattutto di lungometraggi con tantissime comparse e grandiosi allestimenti teatrali. L’opera che più di tutte ebbe un impatto sul cinema americano fu Cabiria diretto da Giovanni Pastrone nel 1914: considerato il primo kolossal della storia, aveva ambientazione storica e didascalie di Gabriele D’Annunzio, tra i primi scrittori a lavorare per il cinema. Espone costumi di scena prestati dal Museo Nazionale del cinema di Torino, fotografie dal set e locandine.
La terza è dedicata a quattro personalità italiane centrali nell’arte e nel cinema americano, che plasmarono una idea di italianità diversa da quella dell’immigrato straccione e criminale e incentrata invece sul bello, sul successo e sulla grazia: il tenore Enrico Caruso, la fotografa, modella e attrice Tina Modotti, il primo divo del cinema Rodolfo Valentino e Lina Cavalieri, cantante e attrice, considerata la donna più bella del mondo, definita da D’Annunzio «la massima testimonianza di Venere in terra». Piero Fornasetti la trasformò in un’icona pop quando dal 1925 iniziò a ritrarne il viso in più di 300 varianti su piatti in porcellana, di cui 40 sono in mostra. La storia e la carriera di queste celebrità è raccontata attraverso quadri, oggetti, manifesti e fotografie, come quelle che esaltano il fascino erotico, elegante e malinconico di Rodolfo Valentino, e il corpo nudo e sensuale di Tina Modotti, ritratta dall’amante e celebre fotografo Edward Weston.
Una sala successiva è dedicata ad altre persone notevoli: registi come Frank Capra e Robert Vignola; il pugile Bull Montagna, che recitò in una settantina di film; direttori della fotografia come Tony Gaudio e il comico Monty Banks. A loro si affiancano i nuovi protagonisti di oggi, affermati o emergenti, ritratti dal fotografo italiano Manfredi Gioacchini in un progetto appositamente commissionato: c’è per esempio la costumista Milena Canonero, che per il suo lavoro ha vinto quattro premi Oscar; il calzolaio Pasquale Fabrizio, che ha disegnato le scarpe per Kill Bill; il montatore Pietro Scalia, che ha lavorato con Oliver Stone, Ridley Scott e Bernardo Bertolucci; il direttore della fotografia Dante Spinotti, candidato al premio Oscar per L.A. Confidential e Insider – Dietro la verità.
Per la mostra è stato commissionato anche un progetto al regista italiano Yuri Ancarani, che ha filmato con un iPhone i turisti della Zuma Beach, la spiaggia dove venne girata la famosa ultima scena di Il pianeta delle scimmie, intenti a ripredersi e farsi selfie.
Un’intera sala è dedicata all’influenza della musica italiana dell’epoca, che contribuì allo sviluppo del jazz con l’introduzione dei fiati, e una al film Romola, girato nel 1924 da Henry King negli studi cinematografici Firenze Rifredi. Il film racconta un altro pezzo di cinema hollywoodiano, quello influenzato dall’Italia per il contenuto – è ambientato nella Firenze del Quattrocento – e per la produzione artigianale: fu infatti girato a Firenze perché era molto più economico ma anche per la bravura delle maestranze. I cantieri Neri ricostruirono negli studi il Duomo di Firenze e il Bargello mentre l’accuratezza di costumi e ambientazioni è sottolineata dall’affiancamento di fotogrammi del film a dipinti e sculture dell’epoca e dell’Ottocento.
Nell’ultima sala viene ricostruito l’Hollywood Boot Shop, il negozio che Ferragamo rilevò e aprì nel 1923 quando aveva solo 25 anni. Ferragamo era nato a Bonito, a 100 chilometri da Napoli, undicesimo di 14 figli. A 11 anni era già apprendista di un calzolaio a Napoli, a 13 aprì un negozio a Bonito, a 16 raggiunse i fratelli in America, a Boston, per lavorare in una fabbrica di scarpe. Il suo però era un lavoro artigianale e per questo si trasferì a Santa Barbara da altri due fratelli, dove aprì un negozio di riparazioni di scarpe. Il fratello Alfonso, racconta Stefania Ricci, conosceva «qualcuno nel guardaroba dell’American Film e gli guadagnò le commissioni per gli stivali da cowboy dei primi film western». Nel frattempo Ferragamo studiò anatomia e matematica all’università per realizzare la scarpa perfetta, in grado di adattarsi e sostenere il piede al meglio. Ebbe l’idea di inserire una sottile lastra di acciaio nella suola per rendere la scarpa resistente e sopportare tutto il peso del corpo: le sue divennero leggere da indossare, comode, dai tacchi eleganti e dalle stampe colorate e originali. «Lavorare sulla calzata ha fatto sì che le attrici stessero comode e finissero per andare da lui», ha spiegato Ricci.
Quando l’industria cinematografica si spostò a Hollywood, Ferragamo la seguì e aprì il negozio in posizione strategica: «uscivano dalle première e lo vedevano». Era pieno di colonne classiche, mobili e arazzi in stile rinascimentale e un divanetto, su cui la diva di turno si sedeva e chiacchierava in attesa che Ferragamo le prendesse le misure e capisse quale scarpa l’avrebbe soddisfatta. «Lavorava per donne che non volevano avere scarpe banali, erano capricciose», racconta Ricci. «Per esempio una volta aveva confessato a Gene Harlow che, mentre faceva un paio di scarpe per lei, gli era caduto del colore sopra, le aveva rovinate e aveva dovuto fare un nuovo paio. Quando glielo portò lei, indispettita dall’idea che il primo fosse più bello, prese il nuovo paio e lo buttò dalla finestra».
Ferragamo ebbe successo anche perché sapeva far sentire speciali i loro clienti ed era inserito nella vita americana. Era amico di molte star, con Rodolfo Valentino si trovava in piscina o a mangiare gli spaghetti, ed era sempre invitato alle feste avendo capito che partecipare alla vita mondana era anche il modo migliore per assicurarsi una clientela: «si era inventato un cocktail, che lui non beveva, ma lo chiamavano sempre per farglielo preparare, anzi glielo chiedevano anche quando andavano in negozio», racconta sempre Ricci.
Nel 1927 il lavoro era tale che non riusciva più a svolgerlo con pochi collaboratori, per questo tornò in Italia e aprì un laboratorio a Firenze, dove c’erano tanti abili artigiani. La sede era vicino alla stazione di Rifredi: lavorava solo per il mercato americano e da lì poteva imbarcare le scarpe facilmente. L’idea era fermarsi temporaneamente ma la crisi del ’29 contrasse le richieste dall’America e Ferragamo decise di concentrarsi sul mercato italiano. «Ai quei tempi poi», spiega Ricci, «Mussolini era visto come l’uomo che avrebbe portato l’Italia nella modernità, il fascismo puntava molto a una rivalutazione dell’artigianato, per quelli bravi c’erano molte possibilità di emergere. Anche la nostalgia dell’Italia lo convinse a restare». Ferragamo aprì due grossi laboratori dove applicava il metodo Ford, ma a livello artigianale, impiegando più di 700 persone. Fu negli anni Trenta che inventò la zeppa in sughero per risparmiare sull’acciaio e permettere al piede di poggiare comodamente su una base leggera ed economica. Ebbe un successo enorme e con il ricavato comprò Palazzo Spini Feroni, dove aveva aperto un negozio al piano terra: sede del Comune quando la capitale fu Firenze, e ora del Museo.