È morto Philip Roth
È stato uno dei più grandi scrittori americani di sempre, aveva 85 anni
Philip Roth, uno dei più grandi e famosi scrittori americani di sempre, è morto martedì notte in un ospedale di Manhattan, a New York; aveva 85 anni. Una delle prime persone che ha confermato la notizia è stata il suo biografo, Blake Bailey, che poco dopo le 5 di mercoledì mattina, ora italiana, ha scritto su Twitter: «Stanotte è morto Philip Roth, circondato dai suoi amici di una vita che gli hanno voluto molto bene. Un uomo amato e il nostro più grande scrittore vivente». Il New York Times ha detto, citando Judith Thurman, un’amica di Roth, che la sua morte è stata causata da un’insufficienza cardiaca congestizia, una malattia cronica che indebolisce il cuore impedendogli di pompare abbastanza sangue nel corpo.
Philip Roth era nato il 19 marzo 1933 a Newark, nel New Jersey, in una famiglia ebrea piccolo borghese; suo padre era un manager assicurativo e la madre una casalinga. Roth era sempre rimasto legato alla città di Newark, e qui aveva ambientato diversi suoi romanzi, tra cui quelli che compongono la Trilogia americana: Pastorale americana del 1997, Ho sposato un comunista del 1998 e La macchia umana del 2000, tre storie americane ordinarie e insieme tragiche ed esemplari. Il protagonista di Pastorale Americana per esempio è un uomo di origini ebraiche, Seymour Levov – «un uomo virtuoso e convenzionale», lo riasssume Roth – che riesce a realizzare con enorme sforzo e qualità eccezionali il “sogno americano”: a distruggerlo sarà la sua amatissima figlia, che rinnega il padre e il suo mondo rassicurante per diventare una terrorista.
Negli ultimi 60 anni Roth scrisse 31 libri tra cui 27 romanzi (oltre a una lettera aperta a Wikipedia); l’ultimo, Nemesi, venne pubblicato nel 2010. Nel settembre 2017 uscì negli Stati Uniti Why write?, un’antologia che raccoglie una selezione dei suoi interventi sulla scrittura dal 1960 al 2013, quando era diventato lo scrittore più celebrato d’America e, forse, del mondo. Il suo primo romanzo, Addio, Columbus, uscì nel 1959, un anno dopo il suo primo racconto pubblicato, sul New Yorker. Nel novembre 2012 Roth annunciò che avrebbe smesso di scrivere, una risoluzione che aveva già preso due anni prima: «a quel punto non avevo più la vitalità mentale e la forza fisica necessarie a sostenere un attacco creativo di qualsiasi durata». Da allora visse da solo nell’Upper East Side a New York, leggendo molto soprattutto saggi (e rileggendo i suoi romanzi: «ho fatto il meglio che potevo con quel che avevo»), incontrando amici, guardando qualche partita di baseball e pranzando ogni tanto nel ristorante ebraico Barney Greengrass.
Il romanzo che gli fece ottenere il grande successo fu Lamento di Portnoy, pubblicato nel 1969: tragedia e commedia personale, raccontata dal protagonista Alexander Portnoy al proprio analista, intorno ai tentativi di sfuggire a un’oppressiva famiglia ebraica e alle proprie nevrosi sessuali, con ampie e allora “scandalose” digressioni sul tema della masturbazione. Nessuno aveva mai scritto niente del genere, riuscendo a rappresentare quel mondo e quei desideri con un linguaggio simile, e il libro, come si dice in questi casi, divenne un bestseller – 420 mila copie nelle prime dieci settimane – e spaccò la critica. Una recensione del 1969 di Josh Greenfeld sulla New York Times Book Review ne riassume le ragioni del successo: era «il romanzo che ogni scrittore ebreo-americano ha cercato di scrivere in un modo o nell’altro dalla fine della Seconda guerra mondiale».
Roth veniva infatti da una famiglia ebraica di immigrati di prima generazione – i suoi genitori erano della Galizia, una regione tra Polonia e Ucraina – e ha rappresentato e riflettuto costantemente nei suoi libri sull’identità ebraica, l’antisemitismo e su cosa significasse essere un ebreo americano. Quasi tutti i suoi protagonisti lo sono, da Alexander Portnoy al suo alter ego e personaggio ricorrente Nathan Zuckerman, ma il libro che ha affrontato più direttamente il tema è Complotto contro l’America (2004), in cui Roth immagina uno stravolgimento della storia: alle elezioni per la presidenza americana del 1940 viene eletto, anziché Roosevelt, Charles Lindbergh, che trasforma repentinamente gli Stati Uniti in un alleato della Germania nazista. Il libro ha riacquistato una certa fortuna dopo l’elezione alla presidenza di Donald Trump.
Nel corso della sua lunga carriera, ha scritto Charles McGrath sul New York Times, Roth «assunse molte forme – principalmente versioni di se stesso – nell’esplorazione di ciò che significa essere un americano, un ebreo, uno scrittore, un uomo. […] E più di ogni altro scrittore del suo tempo esplorò instancabilmente la sessualità maschile». Scrisse di moltissime cose: oltre all’identità ebraica e all’antisemitismo, anche della vita del quartiere Weequahic di Newark, dove crebbe, che nei suoi scritti «divenne una specie di Eden scomparso: un luogo di orgoglio borghese, frugalità, diligenza e aspirazione».
Roth vinse moltissimi premi letterari, tra cui due National Book Award per Addio, Columbus e per Il teatro di Sabbath, e il Pulitzer per la narrativa per Pastorale americana, ma non vinse mai il Premio Nobel, una cosa che nel corso degli anni è entrata nell’immaginario comune per significare una sorta di “ingiustizia”. Nel 2010 l’allora presidente statunitense Barack Obama gli consegnò la National Humanities Medal, la più importante onorificenza americana per chi ha ampliato la conoscenza della natura e dello spirito umano.
Roth disse spiegò una volta perché scriveva: «scavo una buca e la illumino con una torcia». Lo faceva giocando con la sua biografia e la sua identità, creando alter ego come protagonisti: il più famoso di tutti, Nathan Zuckerman, è la voce narrante di nove romanzi; in Operazione Shylock ci sono due Philip Roth, l’autentico e un impostore; la famiglia di Complotto contro l’America ricorda molto la sua ai tempi dell’infanzia a Newark. «Creare false biografie, una storia immaginaria, plasmare un’esistenza mezza inventata dal dramma reale della mia vita, è la mia vita – disse in un’intervista del 1984 alla Paris Review – Nella vita deve esserci un po’ di piacere: è questo».
Parlando del padre una volta disse che «il suo repertorio non è mai stato ampio: famiglia, famiglia, famiglia, Newark, Newark, Newark, New Jersey, New Jersey, New maccJersey, ebrei, ebrei, ebrei. Un po’ come il mio». Il tema che manca a questo elenco è il sesso, uno dei più centrali e onnipresenti della sua opera. Quasi tutti i suoi protagonisti sono uomini – Roth è stato accusato spesso di misoginia – tormentati dal desiderio, spesso frustrato e impossibile a realizzarsi per l’età, il rifiuto o la malattia: Roth lo ha descritto come pochi prima avevano fatto, a partire dalle famose scene di masturbazione con una mela, una bottiglia di latte e una bistecca di fegato in Lamento di Portnoy.
Dai suoi romanzi sono stati tratti numerosi adattamenti teatrali e otto cinematografici, tra cui La macchia umana, diretto da Robert Benton nel 2003, e il recente American Pastoral, il primo diretto dall’attore scozzese Ewan McGregor.
Roth si sposò due volte: la prima nel 1959 con Margaret Martinson, una donna divorziata con una figlia che, raccontò Roth, l’aveva convinto di essere incinta di lui. Si separarono nel 1963 ma lei gli rifiutò divorzio e continuò a tormentarlo fino a quando morì in un incidente stradale nel 1968, un evento che ritorna spesso nelle opere di Roth.
Dopo un’operazione al ginocchio nel 1987 gli vennero prescritti Xanax e Halcion, un sedativo che su alcuni pazienti poteva provocare paranoia, perdita della memoria, allucinazioni, tremori. Roth divenne dipendente dagli psicofarmaci e attraversò un periodo di depressione e isolamento; nel 1989 gli venne impiantato d’urgenza un bypass quintuplo. Le sue condizioni migliorarono nel 1990, quando sposò l’attrice Claire Bloom, sua compagna dagli anni Settanta, da cui poi divorziò nel 1994; non si lasciarono in buoni rapporti, e ognuno raccontò il fallimento del matrimonio e i difetti dell’altro in un libro: lei in Leaving a Doll’s House, lui in Ho sposato un comunista.
Lo scorso gennaio aveva parlato della vecchiaia e della morte in un’intervista a Charles McGrath sul New York Times:
«È stupefacente trovarmi ancora qui, alla fine di ogni giornata. Andare a letto di notte e pensare sorridendo che “ho vissuto un altro giorno”. E poi è stupefacente risvegliarsi otto ore dopo e vedere che è la mattina di un nuovo giorno, e sono sempre qui. “Sono sopravvissuto a un’altra notte”, penso, e mi viene da sorridere di nuovo. Vado a dormire sorridendo e sorridendo mi risveglio. Sono molto felice di essere ancora vivo. Da quando va così, di settimana in settimana, di mese in mese da quando sono andato in pensione, mi è nata l’illusione che quest’andazzo non finirà mai, anche se ovviamente lo so che può finire da un momento all’altro. È come un gioco che faccio giorno dopo giorno, un gioco dalla posta molto alta che per ora, contro ogni previsione, continuo a vincere. Vedremo quanto andrà ancora avanti la mia fortuna»