La protesta palestinese può diventare non violenta?
Lo suggerisce l’Economist per togliere ogni alibi alle repressioni israeliane a Gaza, ma non è così semplice
Nei giorni successivi alla strage compiuta dall’esercito israeliano durante le manifestazioni di protesta a Gaza, il dibattito si è concentrato sulla proporzionalità della reazione di Israele. Ora che le proteste hanno superato il loro picco – le prossime manifestazioni sono state indette per i primi di giugno, ma saranno probabilmente meno partecipate – ci si chiede cosa potrebbero fare i palestinesi per approfittare delle rinnovate attenzioni di tutto il mondo e far ripartire i negoziati di pace, fermi da quattro anni.
In un articolo pubblicato questa settimana, l’Economist elenca tre punti perché si realizzi questo obiettivo. Per prima cosa secondo l’Economist Hamas – il gruppo politico terroristico che governa la Striscia di Gaza dal 2007 e ha come obiettivo la distruzione di Israele – dovrebbe abbandonare la lotta armata e riconciliarsi con Fatah, il partito palestinese “moderato” che governa in Cisgiordania. Hamas dovrebbe anche impegnarsi a riconoscere il diritto di esistere di Israele, che non viene nemmeno menzionato nel nuovo statuto approvato nel 2017. Infine, l’intera comunità palestinese dovrebbe impegnarsi a manifestare in maniera compiutamente pacifica, «senza armi o esplosivi», in modo da non fornire pretesti a Israele.
Sono tre affermazioni condivisibili e apparentemente di buon senso, ma che hanno poche possibilità di realizzarsi.
Hamas è nato nel 1987 all’inizio della prima intifada, le cosiddette rivolte popolari dei palestinesi, come braccio armato del potente gruppo islamista e pan-arabo dei Fratelli Musulmani. Nella Striscia di Gaza, dove ha preso il potere nel 2007, governa in modo autoritario: le sue forze di sicurezza sono note per la repressione del dissenso e le sfarzose parate militari. La sezione politica di Hamas è divisa da quella militare, ma il confine è poroso: Yahya Sinwar, il leader politico di Hamas nella Striscia, viene dalla sezione militare ed è considerato un terrorista dagli Stati Uniti. Ultimamente ha rallentato, ma negli anni ha compiuto decine di attacchi e attentati suicidi in territorio israeliano.
La lotta armata, insomma, fa parte dell’identità di Hamas: e infatti l’ultimo tentativo di riconciliazione con Fatah, avviato meno di un anno fa, è fallito fra le altre cose perché Hamas non ha accettato di sciogliere le sue forze armate in un unico corpo di sicurezza palestinese. Anche il riconoscimento di Israele è probabilmente fuori discussione: il nuovo statuto, assai ammorbidito rispetto a quello adottato in passato, è stato negoziato con grande fatica ed è considerato una concessione notevole. Per esempio ha ammesso per la prima volta l’idea che i confini della Palestina siano quelli del 1967, cioè precedenti alla guerra dei Sei Giorni vinta da Israele. È una novità importante, perché in passato Hamas sosteneva che i confini palestinesi dovessero ricalcare quelli stabiliti dall’ONU nel 1947, molto più estesi. Eppure, neppure la versione finale del nuovo statuto contiene il riconoscimento di Israele, che Hamas considera ancora il nemico.
È vero che di recente Hamas ha fatto dei passi in direzione di una lotta non violenta. In pochi mesi ha interrotto i lanci di missili verso le città israeliane al confine con la Striscia e abbandonato gli attacchi suicidi. Durante le proteste di queste settimane, però, centinaia di palestinesi, soprattutto giovani e maschi, hanno lanciato pietre contro i soldati israeliani, provato a violare la recinzione sulla linea di confine e piazzato piccoli dispositivi esplosivi.
Eppure, agli occhi di Hamas e dei suoi seguaci, le proteste sono state pacifiche. In una conferenza stampa di un mese fa il capo politico Ismail Haniya ha invocato proteste «popolari, pacifiche e civili» parlando dietro ai ritratti di Gandhi, Martin Luther King e Nelson Mandela. Siamo abituati a usare l’aggettivo “pacifico” in termini assoluti: ma per un gruppo politico-armato con una forte connotazione militare, limitare gli atti di violenza ad alcune centinaia di persone armate di pietre e molotov è un notevole passo in avanti. Fra gli analisti, ci si sta chiedendo se la strategia di Hamas sia cambiata definitivamente oppure se stia cavalcando le manifestazioni. Non si parla di forme di protesta puramente pacifiche, perché almeno per il momento restano fuori discussione.
Questo discorso non vale solo per Hamas e gli abitanti della Striscia di Gaza: migliaia di palestinesi, anche in Cisgiordania, sono nati e cresciuti sotto l’occupazione israeliana. Significa che fin da piccoli hanno sviluppato familiarità con soldati molto armati, checkpoint militarizzati, embarghi e forme di resistenza armata. La violenza ha sempre fatto parte della loro vita: soprattutto per quelli che non hanno una famiglia agiata che possa mandarli a studiare in Israele o all’estero. «Non lanciamo pietre perché siamo palestinesi; siamo palestinesi perché lanciamo pietre», ha spiegato ad ABC News un ragazzo palestinese che vive in Libano.