L’Italia e le canzoni d’amore
50 anni di storia italiana raccontata con quasi altrettante canzoni, che a loro volta ci dicono tanto di come sono cambiati tempi e sentimenti
Siamo abituati a pensare che l’amore sia sempre uguale a se stesso, ma non lo è. Una storia d’amore negli anni del “boom economico” italiano, una storia d’amore prima della legge sul divorzio e una storia d’amore negli anni Novanta sono diverse nei modi, nei tempi e nelle parole che le raccontavano. Canzoni d’Amore, di Luca Beatrice, queste differenze le cerca nelle canzoni d’amore della musica italiana, quasi una per anno dagli anni Sessanta in poi: ognuna racconta il pezzo di storia italiana che si porta dietro e dice molto di come mai l’amore ce lo raccontassimo e lo vivessimo in quel modo. Questo è il primo capitolo del libro, dedicato a “Il cielo in una stanza”, di Gino Paoli e Mina. E dietro ci sono la Liguria di quegli anni, amori clandestini e un adulterio, come si diceva allora.
Il libro sarà presentato mercoledì 23 maggio al Circolo dei lettori di Torino alle 21; insieme all’autore sarà presente la giornalista Selvaggia Lucarelli.
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Per chi è nato al Nord, nel decennio che ha cambiato la storia d’Italia guidandone la trasformazione da paese agricolo e povero in nuova e ricca realtà industriale solo quindici anni dopo la Seconda guerra mondiale, la Liguria ha significato vacanza, mare, divertimento, fine della scuola. Poco più di trecento chilometri di costa tra Ponente e Levante dove i torinesi, in particolare, si riversano fin dai primi fine settimana della bella stagione su spiagge di ciottoli, tra le rocce, in una fitta trama di ombrelloni e corpi sempre più scoperti. I bikini sostituiscono il costume intero, juke-box, radio e mangiadischi in plastica colorata suonano ad alto volume. I bagnini, sorridenti e abbronzati, si specializzano nella caccia alle giovani mamme, prima che ad agosto arrivino i mariti. Chi all’inizio degli anni Sessanta ne aveva venti, si è innamorato in Liguria. Qualche flirt è diventato una storia più seria, qualcuno s’è impegnato in promesse e qualcun altro le ha mantenute; molti rimangono invischiati e senza preavviso nascono i bambini, quanti l’Italia non ne aveva mai visti, quasi un milione solo nel 1961. Gli anticoncezionali non sono ancora diffusi: la pillola sta arrivando in Europa proprio adesso, ma qui da noi la conoscono in pochi. E così una ragazzina neppure maggiorenne si innamora di un ragazzo già uomo fatto, con una figlia a carico avuta da una storia precedente. Un caso più unico che raro di ragazzo-padre che cresce la bambina con l’aiuto dei nonni e delle zie più giovani in una famiglia numerosa, di immigrati dal Sud, i meridionali andati a cercare lavoro e fortuna a Torino che pensano i figli siano una ricchezza, non bocche da sfamare. I bambini, invece, costano e, nonostante in Italia ora si cominci a stare meglio, non è per niente facile allevarli e crescerli.
Bastano pochi bagni al mare e la ragazzina, bella, mora, occhi neri, piccolina, perfettamente proporzionata, resta incinta. È bello anche lui, viso d’angelo, occhi celesti, capelli chiari già radi, andatura di chi la sa lunga, che si presenta ogni volta con un’auto diversa, chissà dove se le procura: vanta amicizie importanti, è affascinante e bugiardo con quel modo un po’ gaglioffo così di moda negli anni Sessanta. Vanno a balla- re che già si vedono le prime rotondità di lei, a Sanremo, ad Alassio, al Covo di Santa Margherita, una discoteca issata su una roccia a picco sul mare, il raduno dei vip, i viveur, personaggi simbolo della nuova Italia del boom: industriali, imprenditori, rampolli d’oro, attori, cantanti. Una sera vedono perfino l’Avvocato, che nella loro città è considerato un benefattore perché la sua azienda dà lavoro a tante famiglie, è famoso, elegante, un modello di stile. Se c’è in tasca qualche soldo in più, di corsa fino a Saint-Tropez: la Costa Azzurra è davvero un altro mondo. “A Saint-Tropez, la luna si desta con te”, canta Peppino Di Capri, uno dei loro musicisti preferiti, riescono perfino ad avvicinarlo al tavolo e bere una bottiglia insieme. Di Saint-Tropez Gigi Rizzi, il playboy famoso per la storia con Brigitte Bardot, diceva: “Era una parola magica, il crocevia di un sogno che ci portava sempre più lontano. Ci arrivai la prima volta nel ’62 con una Innocenti IM3, un po’ di soldi in tasca e tanta curiosità. Il bello della spiaggia tropeziana era l’aria disinibita che vi si respirava: c’erano già i seni nudi, i naturisti, l’approccio era facile, simpatico”.
Nelle discoteche della costa ligure non ci sono solo giovani come loro, spensierati, con tanta voglia di divertirsi. Qualcuno si porta in faccia un’espressione assorta, studiata e malinconica; il bel tenebroso, con l’ambizione di volare più alto dalla canzonetta allegra e divertente, degli amori in rima baciata. No, lui ha sentimenti profondi, intrisi del mal di vivere preso in prestito da Parigi, dagli esistenzialisti vestiti di nero, con gli occhiali scuri anche di notte. Così, tra i frequentatori del Covo spunta un piccolo gruppo di amici, ragazzi che sognano a occhi aperti di diventare famosi con le canzoni. Vengono da Genova, stanno in disparte col bicchiere in mano, si avvicinano al pianoforte e cantano, quasi recitano, parole che in Italia non si erano ancora sentite. La prima scuola d’autore della musica italiana ha dunque casa a Genova. Ne fanno parte Gino Paoli, Fabrizio De André, Bruno Lauzi, Umberto Bindi e Luigi Tenco. La critica ha parlato di profonda rottura con la tradizione melodica nazionale, di un approccio stilistico ricercato ed eclettico, attento alla realtà eppure pervaso da matrici letterarie, con qualche tratto appena di politica e ideologia, contro la guerra e l’emarginazione ma fortemente individualista. Per cantare l’amore, rose e fiori non bastano più, bisogna raccontare l’esperienza diretta, la vita vissuta sulla propria pelle. Le notti in discoteca, certo, ma anche i vicoli malfamati, gli alberghi a una stella, persino un bordello nonostante la legge Merlin, nel 1958, abbia decretato la fine delle case chiuse. Una camera dal soffitto viola diventa così il teatro di un amore occasionale, dove il suono di un’armonica e un organo che vibra profumano tanto di orgasmo. Termini che nel 1960 non si possono pronunciare, neppure è possibile alludervi, ma chi vuole sa leggere tra le righe. La storia di un incontro passionale, senza sentimento, forse a pagamento, la racconta un ragazzo che nel 1960 ha ventisei anni, proprio come quell’altro che ha messo incinta la diciassettenne di Torino.
Gino Paoli scrive Il cielo in una stanza anche se, non ancora iscritto alla Siae, non può figurare tra gli autori. Istriano d’origine, con una travagliata storia familiare alle spalle, vive a Genova da quando è bambino. Camicia chiara, pantaloni scuri, a volte la giacca, maglia nera a collo alto come JeaPaul Sartre. Sorride poco, sguardo sfuggente nascosto dagli occhiali neri da vista a correggere un’intensa miopia. Giovanissimo è già sposato, ma è uno sciupafemmine di professione. Conosce Ornella Vanoni, che all’inizio del decennio recita in teatro accanto a Giorgio Strehler, interpretando le canzoni della mala inventate dallo stesso regista insieme a Fiorenzo Carpi: si prendono, si lasciano, si riprendono. Nel ’62 Paoli finisce al centro dello scandalo per la relazione con Stefania Sandrelli, che di anni ne ha appena sedici. Mentre lui aspetta un figlio dalla moglie Anna Fabbri, la bellissima attrice viareggina di Divorzio all’italiana resta anche lei incinta. Si sono conosciuti da poco in Versilia, una sera che lui canta dal vivo e Stefania con la sua malizia lo fissa a lungo per farsi invitare a ballare alla Capannina, il locale di tendenza sul lungomare del Forte. Aperto da Achille Franceschi nel 1929, si porta dietro diverse leggende tra cui quella di Italo Balbo che negli anni Trenta sarebbe atterrato sull’acqua con il suo idrovolante per farsi accompagnare dalle amiche a bere un Negroni proprio lì. Ci sono passati John Kennedy e Mike Bongiorno, Edith Piaf e Alberto di Liegi, Eugenio Montale e Thomas Mann, Gino Bartali e Sugar Ray Leonard. Jerry Calà, che anima ancora tante serate al Forte, dice che “il bello della Capannina è che oggi non è cambiato nulla”. Così Gino e Stefania “cominciarono fughe e segreti, incontri e appuntamenti clandestini”, come raccontano i giornali dell’epoca. “La minorenne spensierata, cresciuta in Versilia con il sogno della danza classica e la mania del cinema, sgattaiolava via di notte, calandosi dalla finestra, attenta a non farsi beccare dalla madre, per poi rientrare all’alba, con l’aiuto della cameriera, dopo scorribande d’amore, corse sull’auto scoperta del cantante, jazz, baci, sesso in pineta. Tutto pur di stare insieme, sfidando i divieti.” Loro sono famosi, ma di storie così ce ne sono tante anche tra la gente comune: altro che modello della nuova famiglia italiana, dedita al lavoro, che aspira all’acquisto dell’automobile e dei piccoli elettrodomestici. Gli anni del boom favoriscono gli intrecci amorosi più complicati e articolati; i pettegolezzi riempiono le cronache quando si tratta di vip, ma chi non è sotto la luce dei riflettori si arrangia come può, tra pregiudizi e ostilità, una vergogna per la famiglia tradizionale. Il cielo in una stanza è tra le prime canzoni d’amore italiane a rompere la consuetudine dei buoni sentimenti, e quei due amanti “abbandonati come se non ci fosse più, niente più niente al mondo” non inscenano un vincolo di coppia ma un incontro esclusivamente sessuale. Il successo però non lo si deve solo a Paoli. È Mogol, il paroliere di tanta musica italiana, a proporla a Mina. E Gino accetta che sia lei a cantarla. Anna Maria Mazzini nel 1960 è stabilmente in classifica con Tintarella di luna.
La chiamano ancora “urlatrice”, ma proprio l’interpretazione di quel pezzo la eleva a un rango superiore, imponendola come voce di spessore, un passo decisivo a rivelare una personalità prorompente, unica. Una perticona di 178 centimetri. Ha i fianchi larghi, il naso troppo grosso, capelli neri corti e cotonati. Niente affatto una bellezza canonica, dotata però di un magnetismo irresistibile, Mina le batte tutte e non solo per la voce. Anche lei canta in Versilia, preferibilmente alla Bussola, che nel 1955 Sergio Bernardini ha aperto a Marina di Pietrasanta; lì, dove si sono conosciuti Gino e Stefania, Mina è sul palco ogni estate dal 1962 al 1978, suo ultimo live prima dell’addio definitivo alle scene. Anche in amore, sfugge alle regole tradizionali. Nel 1962 incontra Corrado Pani, che per lei accelera la separazione dalla moglie. Appena un anno dopo l’inizio della loro relazione, che clandestina non può essere a causa della pressione dei media, nasce Massimiliano, affettuosamente soprannominato Paciughino. Uno scandalo per l’Italia degli anni Sessanta, perché la protagonista è una donna di successo, abitualmente presente in tv. I rapporti extraconiugali sono banditi, il divorzio ancora lontano. Non proprio un modello di virtù, in un Paese che ha appena censurato Federico Fellini e La dolce vita, secondo “L’Osservatore Romano” un film che propaganda il vizio nonostante abbia vinto la Palma d’oro al Festival di Cannes. La censura, implacabile, si abbatte su Mina; la Rai la allontana da “Studio Uno”, ché per i benpensanti si tratta pur sempre di un’adultera. Ma lei se ne frega, vive il suo amore con felicità. “Il massimo – rivelerà in un’intervista a “Playboy” nel 1973 – è stata una foto su ‘Epoca’ dove io ridevo con Corrado con il mio pancione, tranquilla, e sotto scritto ‘cosa avrà da ridere?’, guarda che è il massimo, me la ricorderò tutta la vita una cosa del genere. Per cui capisci tu l’atteggiamento della stampa: me ne hanno tirate addosso delle badilate e la gente non si è fatta condizionare da questo fatto, l’ha superato.” Un’altra grande donna, che del mondo ha sempre capito tutto, parla di Mina con curiosità e ammirazione. Così si chiede Oriana Fallaci sull’Europeo del febbraio 1961: “Ma chi è dunque questa ragazza che in nemmeno due anni è diventata una specie di mito degli italiani giovani e vecchi, poveri e ricchi, babbei e intelligenti, comunisti e cattolici? È un tipo molto, molto singolare. Io la guardo. In questa San remo dove affoga tutto lo squallore di un Festival denso di urli, di vanità provinciali, di peccati mediocri che tuttavia non la toccano, e più la guardo meno capisco chi è. C’è in lei un inconfessato disprezzo per coloro che la stanno ad ascoltare e infatti, quando ha finito, volta sdegnosamente le spalle e se ne va: per andare a guardarsi alla televisione!”.