Ma perché Kim Jong-un all’improvviso vuole fare la pace?
E perché proprio ora, dopo avere fatto le corse per costruire bombe atomiche e missili intercontinentali?
di Elena Zacchetti
È molto raro che in politica internazionale ci siano eventi completamente improvvisi e inaspettati, in grado di stravolgere da un giorno all’altro rapporti e crisi che perdurano da anni o decenni. Con la Corea del Nord, negli ultimi quattro mesi e mezzo è successo esattamente così. Da un giorno all’altro il leader nordcoreano Kim Jong-un ha cambiato registro – una virata di 180 gradi, l’ha definita l’analista Van Jackson sull’Atlantic – e nessuno ha capito bene perché. È iniziato tutto con il discorso di Capodanno, quando ha parlato di voler riprendere il dialogo con la Corea del Sud, ed è proseguito nelle settimane successive, con le aperture diplomatiche verso gli Stati Uniti.
Da prima a dopo, però, la Corea del Nord non è cambiata. È rimasta uno dei paesi più autoritari e chiusi al mondo, dove i diritti umani e l’opposizione non esistono, con un’economia debolissima e stritolata dalle sanzioni internazionali imposte per il programma nucleare e missilistico perseguito dal regime. Il cambio di registro di Kim ha lasciato stupefatti analisti ed esperti, che fino a pochi mesi fa sostenevano che non ci fossero margini per sperare nell’inizio di nuovi colloqui: l’escalation di tensione sembrava ormai un dato di fatto, un processo inevitabile. La domanda è conseguente: cosa vuole esattamente Kim Jong-un? Perché vuole fare la pace proprio ora? La vuole fare davvero, dobbiamo fidarci? Non ci sono risposte definitive, ma si possono fare alcune ipotesi.
Per capire cosa voglia davvero Kim Jong-un si può partire dallo storico incontro che ha avuto lo scorso 27 aprile con il presidente sudcoreano Moon Jae-in nel cosiddetto “villaggio della tregua”, al confine tra le due Coree, nella zona demilitarizzata più militarizzata al mondo. Nel comunicato congiunto diffuso a riunione finita, Kim si è impegnato a trasformare l’armistizio del 1953 in un trattato di pace e ha parlato di «completa denuclearizzazione della penisola coreana». Non ha detto cosa voglia in cambio, o cosa spera di ottenere sedendosi a un tavolo insieme a quelli che fino all’altro ieri considerava nemici. Secondo Mark Landler e Choe Sang-Hun, corrispondenti per il New York Times rispettivamente alla Casa Bianca e in Corea del Sud, «la maggior parte dei funzionari e degli esperti a Washington crede che il leader nordcoreano sia determinato a consolidare lo status di “stato nucleare” del suo paese mentre sfugge al soffocamento delle sanzioni economiche».
Ma non abbiamo appena detto che voleva denuclearizzare la Corea del Nord? Non proprio.
Mettiamo un po’ d’ordine. Kim Jong-un è al potere in Corea del Nord dal dicembre del 2011, quando prese il posto del padre, Kim Jong-il. Da allora si è dato quattro obiettivi, ha scritto Jackson sull’Atlantic: rafforzare il suo potere contro le minacce interne, come dimostra la lunga lista di funzionari uccisi soprattutto nei suoi primi anni di governo, quando era ancora giovanissimo e temeva che la sua autorità non sarebbe stata rispettata dagli alti ranghi dell’esercito; ottenere e poi dimostrare di avere un arsenale nucleare, per fare da deterrente e dissuadere i suoi nemici dall’attaccare la Corea del Nord; migliorare la qualità della vita della sua popolazione, che oggi vive per la maggior parte nella miseria più assoluta; e costringere gli altri stati a riconoscere lo “status nucleare” del suo paese, una sorta di accettazione della Corea del Nord nella comunità internazionale: in pratica ottenere rispetto. Si può dire che Kim abbia raggiunto i primi due obiettivi e che ora stia puntando agli altri due.
Non c’è un manuale che dica ai governi come risollevare un’economia rimasta chiusa per decenni e sottoposta a rigidissime sanzioni internazionali, e ugualmente non esistono regole scritte che stabiliscano quando uno Stato è pronto a entrare nella comunità internazionale. Lo stesso concetto di “entrata nella comunità internazionale” è molto vago e dipende da diverse cose, per esempio dalla volontà di quel paese di accettare e rispettare alcune importanti norme condivise. L’impressione è che per Kim Jong-un tutto questo passi da due cose: ottenere la rimozione o l’allentamento delle sanzioni internazionali, diventate particolarmente dure dallo scorso novembre, e normalizzare i rapporti tra le due Coree, regolati ancora da un armistizio che mise fine alla guerra di Corea, nel 1953. Le mosse fatte finora dal regime nordcoreano sembrano sostenere questa strategia.
Perché proprio ora? L’ipotesi più accreditata è che ci sia stato semplicemente un insieme di coincidenze favorevoli.
Secondo diversi analisti, il punto di partenza è stato l’impeachment dell’ex presidente sudcoreana Park Geun-hye nel dicembre 2016, causato da uno scandalo da film. Nel maggio dello scorso anno i sudcoreani hanno eletto un nuovo presidente, Moon Jae-in, molto più aperto al dialogo con i nordcoreani rispetto a chi lo aveva preceduto (ma davvero molto più aperto). Kim, sostengono gli stessi analisti, avrebbe visto nel cambio di governo in Corea del Sud un’opportunità, il momento giusto per puntare agli ultimi due obiettivi, il miglioramento dell’economia e il riconoscimento dello status di “paese nucleare” della Corea del Nord. Prima di cominciare il dialogo, però, Kim doveva rafforzare rapidamente la sua posizione, completando i test sui missili balistici intercontinentali di cui si parlò molto la scorsa estate. Come osservarono allora diversi analisti, quei test furono di estrema importanza: per la prima volta la Corea del Nord testò con successo un missile che se lanciato dal territorio nordcoreano avrebbe potuto colpire gli Stati Uniti continentali.
L’uomo dietro al riavvicinamento tra Stati Uniti e Corea del Nord
È probabile che i motivi che hanno spinto Kim ad aprirsi siano stati anche altri. Nella sua newsletter settimanale dedicata all’Asia, la giornalista del Foglio Giulia Pompili ha scritto che potrebbero avere avuto un ruolo anche l’insostenibilità delle sanzioni, i toni bellicosi di Donald Trump e una “paura genuina” percepita a Pyongyang rispetto a un attacco militare più volte ipotizzato dall’amministrazione statunitense. A fine aprile, inoltre, si era parlato del parziale collasso del principale sito nucleare nordcoreano, causato dalle molte esplosioni necessarie per fare i test. Secondo uno studio realizzato da geologi cinesi, il collasso avrebbe reso molto pericoloso proseguire i test e avrebbe lasciato il sito vulnerabile a fuoriuscite di radiazioni nucleari, forse mettendolo fuori uso. È difficile dire quale tra queste cose abbia contato di più.
Oltre al perché e al perché ora, ci sono altre due cose che da settimane si chiedono in molti: c’è da essere ottimisti? C’è da fidarsi?
Riguardo alla prima domanda, bisognerebbe anzitutto stabilire cosa ci si aspetta dai negoziati dei prossimi mesi. Oltre alla pace nella penisola coreana, l’obiettivo più ambizioso dei colloqui è la cosiddetta “denuclearizzazione”, un termine che può voler dire diverse cose a seconda di chi lo definisce, ha scritto Anna Fiefield, corrispondente del Washington Post a Tokyo.
Per diversi funzionari della Casa Bianca, e forse per lo stesso Trump, “denuclearizzazione” significa la consegna da parte di Kim Jong-un di tutto il suo arsenale nucleare e dei suoi missili, e la concessione di ispezioni internazionali nei siti dove oggi si costruiscono le armi. Per il regime nordcoreano sembra però voler dire qualcosa di molto diverso: potrebbe significare un accordo più ampio che preveda la consegna delle armi nucleari ma anche una riduzione delle truppe statunitense in territorio sudcoreano e la rimozione del cosiddetto “ombrello nucleare” americano su Corea del Sud e Giappone (con “ombrello nucleare” si intende una serie di garanzie date da un paese dotato di arma atomica – in questo caso gli Stati Uniti – a un suo alleato che non la possiede). «Il pericolo è entrare nei negoziati con l’aspettativa irrealistica che Kim possa consegnare semplicemente le chiavi del suo regno nucleare. Non lo farà», ha commentato l’esperto di proliferazione nucleare Vipin Narang. «Nessuno fuori dalla Casa Bianca pensa che Kim consegnerà le sue armi nucleari, anche se dice che potrebbe farlo», ha scritto Zack Beauchamp su Vox.
L’enorme differenza tra le due definizioni di “denuclearizzazione” è venuta fuori in maniera chiara qualche giorno fa, quando la Corea del Nord ha minacciato di far saltare l’incontro tra Kim e Trump se gli Stati Uniti non avessero smesso di parlare di abbandono «unilaterale» dell’arsenale nucleare nordcoreano. Il regime della Corea del Nord se l’è presa soprattutto con John Bolton, nuovo consigliere di Trump per la sicurezza nazionale molto di destra e aggressivo in politica estera. Bolton aveva parlato di «completa e verificabile denuclearizzazione della Corea del Nord», una richiesta che sembra oggi irricevibile dal regime nordcoreano, e aveva aggiunto che il modello avrebbe dovuto essere quello del disarmo della Libia di Muammar Gheddafi del 2004. Ma c’è un problema: Gheddafi fu destituito e ucciso nel 2011 nel bel mezzo di una guerra civile e dopo un intervento militare di diversi paesi stranieri, tra cui gli Stati Uniti. L’intervento ci sarebbe stato lo stesso se Gheddafi avesse avuto ancora le sue armi nucleari? Probabilmente no. Kim Jong-un accetterà un piano che potrebbe fargli fare la fine di Gheddafi? Probabilmente no.
La questione della “denuclearizzazione” è centrale per due ragioni. Primo: fa riflettere su cosa ci si debba aspettare da questi negoziati e quanto si possa essere ottimisti su un loro eventuale successo. Secondo: ridimensiona lo stupore di chi pensava che Kim si fosse convinto da un giorno all’altro ad abbandonare le sue armi nucleari, dopo avere impiegato anni a costruirle. Kim ha legato più volte la sopravvivenza del suo regime al possesso delle armi atomiche ed è molto improbabile che sarà disposto a rinunciarvi senza forti garanzie dalle controparti.
Riguardo alla domanda, c’è da fidarsi?, la risposta sembra essere più “no” che “sì”.
L’impressione è che Kim voglia veramente negoziare, e soprattutto trovare un accordo per normalizzare i rapporti con la Corea del Sud, ma è anche vero che la diffidenza verso il regime nordcoreano è enorme e le sue intenzioni sono ambigue. Se la Corea del Nord dovesse abbandonare i negoziati – magari anche prima del loro inizio – non sarebbe una grande sorpresa. Robert Gallucci, capo negoziatore per l’amministrazione di Bill Clinton durante i colloqui degli anni Novanta tra Stati Uniti e Corea del Nord, ha paragonato di recente tutta questa situazione a una delle serie di strisce dei Peanuts più celebri, quella del football. Lucy convince Charlie Brown a giocare a football; Charlie Brown prende la rincorsa per calciare; Lucy all’ultimo momento toglie la palla dal piede di Charlie Brown. «Per anni gli Stati Uniti sono stati nella posizione di Charlie Brown, e la Corea del Nord in quella di Lucy».
E allora perché la Corea del Nord dovrebbe volere anche solo iniziare a negoziare, se poi quello che vuole fare è togliere la palla da football dai piedi di Charlie Brown? Senza voler entrare nella testa di Kim Jong-un – anche perché nessuno può sapere cosa abbia in testa – si può fare un’ipotesi. Secondo l’analista Van Jackson, se anche i colloqui dovessero fallire, gli sforzi diplomatici fatti dal regime nordcoreano renderanno comunque più difficile alla comunità internazionale – e soprattutto alla Cina, unico grande paese amico della Corea del Nord – applicare di nuovo sanzioni economiche soffocanti. Jackson ha concluso: «La diplomazia è un mezzo low-cost per ottenere un alleggerimento delle sanzioni, che potrebbe migliorare la qualità della vita dei nordcoreani. Allo stesso tempo, un processo esteso di riconciliazione con la Corea del Sud potrebbe comportare la promessa di quell’assistenza e quegli investimenti economici di cui la Corea del Nord ha bisogno».
Insomma: le ragioni per negoziare ci sono da entrambe le parti, così come i rischi. E il successo non è garantito.