La Libia non è un «approdo sicuro» dove rimandare i migranti soccorsi in mare
Lo dice il Tribunale del riesame di Ragusa, mettendo in discussione la legalità delle politiche sui migranti del governo Gentiloni
Il tribunale del riesame di Ragusa ha respinto ieri il ricorso della procura di Catania contro il dissequestro della nave della ong spagnola Proactiva Open Arms, al centro di un’indagine di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di cui si era molto parlato. Il tribunale del Riesame ha sostenuto che la Libia non è un «approdo sicuro» secondo gli standard del diritto internazionale e ha quindi dato ragione alla ong, che lo scorso marzo aveva soccorso decine di migranti rifiutandosi poi di consegnarli alla Guardia costiera libica, che li avrebbe riportati in Libia.
La decisione del tribunale non è importante solo per il caso specifico che riguarda Open Arms, ma anche perché mette in discussione la legalità delle politiche migratorie adottate negli ultimi mesi dal ministro degli Interni Marco Minniti e dal governo guidato da Paolo Gentiloni.
Il caso relativo a Proactiva Open Arms era iniziato il 15 marzo scorso, quando il centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo di Roma (IMRCC) avvertì della presenza di alcuni gommoni in difficoltà a una settantina di chilometri dalla costa libica. Alla chiamata risposero il centro di Tripoli, che fa capo al governo di unità nazionale della Libia, e la nave Open Arms, che arrivò sul posto per prima e cominciò a soccorrere i migranti facendoli salire a bordo di due gommoni. A quel punto però le autorità italiane fecero sapere a Open Arms che avrebbe dovuto consegnare i migranti alla Guardia costiera libica, che li avrebbe riportati in Libia. Open Arms si rifiutò: disse che gli agenti libici erano noti per compiere abusi sistematici sui migranti e che quindi permettere il ritorno in Libia delle persone soccorse sarebbe stata una violazione del diritto internazionale umanitario.
Open Arms fu poi lasciata andare e sbarcò a Pozzallo, in Sicilia, dove fu immediatamente sequestrata. I responsabili della missione e il capitano della nave furono interrogati e accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e associazione a delinquere. Il 16 aprile il giudice per le indagini preliminari di Ragusa, Giovanni Giampiccolo, dispose il dissequestro della nave, decisione contro cui fece appello la procura di Catania ma che è stata confermata ieri dal tribunale del Riesame di Ragusa.
Tutta questa storia ha provocato fin dall’inizio dibattiti molto accesi. La procura di Catania è stata criticata per le accuse formulate contro Open Arms, anche per la completa assenza di prove che dimostrassero legami tra la ong e i trafficanti di esseri umani. È stato criticato anche il governo italiano, per avere concluso un accordo con la Libia (e con le sue milizie) che affida la gestione dei soccorsi in mare alle controverse autorità libiche, le stesse che poi portano i migranti nei “centri di detenzione” dove si praticano in maniera sistematica stupri e torture, e dove i migranti sono venduti come schiavi per qualche centinaio di dollari.
Il problema – rilevato anche dal tribunale del Riesame di Catania – è che questa cosa per il diritto internazionale non si può fare. Le ong che compiono i soccorsi seguono la Convenzione di Amburgo del 1979 e altre norme sul soccorso marittimo, secondo cui le persone soccorse in mare devono essere sbarcate nel primo “porto sicuro” sia per la prossimità geografica sia dal punto di vista del rispetto dei diritti umani. La Libia – un paese con più governi, controllato in larga parte da milizie armate e dove il rispetto dei diritti umani non sta di casa – non può essere considerato un “porto sicuro”. Per questo la decisione del tribunale del Riesame di Ragusa è così importante: non respinge solo il ricorso della procura di Catania contro il dissequestro della nave di Open Arms, ma mette anche in discussione la legalità delle politiche adottate dall’ultimo governo italiano sui soccorsi in mare dei migranti che provengono dalla Libia.