Cosa doveva fare Israele?
La strage di palestinesi a Gaza è sembrata una violenza inaccettabile e imperdonabile per molti, una reazione inevitabile per altri
«”Sono morti”. Vergognatevi. È come chiamare le bugie di Trump “inaccuratezze fattuali”. Ditemi che il vostro feed di Twitter è gestito da un tirocinante». Così ha commentato lunedì scorso il produttore e regista americano Judd Apatow un titolo del New York Times relativo alla strage appena compiuta nella Striscia di Gaza. Apatow, così come tanti altri giornalisti e opinionisti, se l’è presa con l’uso dell’espressione «sono morti»: non sono morti e basta, ha detto, sono stati uccisi dai soldati israeliani appostati al di là della barriera che divide la Striscia di Gaza da Israele.
“Have died.” Shame on you. This is like calling Trump’s lies “factual innacuracies.” Please tell me an intern is running your twitter feed. https://t.co/1lev5yWoTa
— Judd Apatow 🇺🇦 (@JuddApatow) May 14, 2018
La questione tirata in ballo da Apatow ha moltissime implicazioni e da giorni è al centro di un enorme dibattito. Usare l’espressione “sono stati uccisi” al posto di “sono morti” non è un capriccio linguistico di qualche osservatore un po’ pignolo, ma una scelta che implica un’attribuzione di responsabilità. Ma c’è di più. Per il diritto internazionale, oltre che per le leggi di uno stato e la legittimità di un governo, uccidere qualcuno può essere permesso oppure no, legale oppure no, legittimo oppure no, a seconda di chi sono le persone uccise e di quali armi vengono usate. I palestinesi colpiti erano terroristi o civili? L’uso di armi da fuoco in una situazione come quella delle proteste di lunedì nella Striscia è stato proporzionato alla minaccia oppure no? In altre parole: Israele poteva fare quello che ha fatto, o è andato oltre e ha esagerato?
Per capirci qualcosa in più bisogna partire dall’inizio: capire meglio cosa è successo, quale è stato il ruolo del gruppo radicale palestinese Hamas e cosa permette di fare il diritto internazionale in circostanze simili.
Le proteste sono iniziate lunedì mattina, qualche ora prima dell’inaugurazione dell’ambasciata americana a Gerusalemme a cui hanno partecipato anche Ivanka Trump, figlia di Donald Trump, e Jared Kushner, marito di Ivanka e consigliere del presidente. Circa 40mila palestinesi si sono trovati in diversi punti della Striscia di Gaza vicino alla barriera che la divide da Israele e che non permette a niente e nessuno di entrare e uscire senza il permesso del governo israeliano. La maggior parte dei manifestanti – molte famiglie, donne e bambini – è rimasta a una distanza di sicurezza dalla barriera, a differenza di molti giovani uomini, che hanno provato ad avvicinarsi. Qualcuno ha tentato di superare la recinzione, ma è stato fermato dai cecchini israeliani che si trovavano a pochi metri di distanza. Stando alle testimonianze dei presenti e ai racconti dei giornalisti sul posto, i cecchini israeliani avrebbero colpito anche persone disarmate che si trovavano a una distanza rilevante dalla barriera. Alla fine della giornata, ha detto il ministro della Salute della Striscia di Gaza, i palestinesi uccisi sono stati 60 e quelli feriti diverse centinaia.
Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha accusato l’esercito israeliano di avere compiuto un «massacro» di civili disarmati, mentre il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha sostenuto che i suoi militari avessero agito per autodifesa. Netanyahu ha dato la responsabilità dei morti ad Hamas, gruppo radicale che controlla la Striscia e che è considerato da Israele un’organizzazione terroristica.
Per cercare di definire meglio la questione, vale la pena prendere in prestito una delle cose che dice il diritto internazionale in materia, a cui sono chiaramente sottoposti anche i soldati israeliani: «L’uso intenzionale di armi da fuoco è permesso solo quando è strettamente necessario per proteggere vite umane». Quindi la domanda è: era strettamente necessario?
Chi dice di no sostiene che Israele abbia risposto alle proteste in maniera del tutto sproporzionata. Il giornalista John Cassidy ha parlato sul New Yorker di un bilancio di morti e feriti «completamente asimmetrico»: decine da parte palestinese, un soldato lievemente ferito da parte israeliana. Cassidy ha sottolineato come i soldati israeliani non siano mai finiti sotto il fuoco nemico diretto, anche perché i palestinesi erano armati solo di pietre e bombe molotov. Il giornalista indipendente Sharif Abdel Kouddous, che era nella Striscia durante le proteste, ha raccontato di avere visto persone lontane dalla barriera colpite dagli spari dei cecchini israeliani. In pratica, sostengono Cassidy, Kouddous e tanti altri, i palestinesi uccisi non erano davvero una minaccia alla vita umana degli israeliani al di là del confine: erano praticamente disarmati, soprattutto se confrontati con i soldati israeliani di fronte a loro. A essere messo in discussione, poi, è stato anche l’uso di armi che sparavano proiettili veri.
Ilene Prusher, giornalista e opinionista israeliana del quotidiano Haaretz, si è chiesta come mai i soldati non abbiano usato modi diversi dai proiettili per fermare le persone che minacciavano di superare la barriera. In diversi paesi, ha scritto Prusher, le forze di sicurezza usano i cannoni ad acqua per disperdere la folla ed evitare un suo avanzamento: è un sistema che rischia di causare qualche ferito per contusione, ma certamente non 60 morti. «I manifestanti a Gaza che lanciano sassi e bombe molotov o tagliano la recinzione sono molto lontani dalla definizione da manuale di “manifestanti pacifici” che si impegnano nella disobbedienza civile. Ma non si può certo dire che rappresentino una minaccia letale per 13 battaglioni delle forze armate israeliane», ha concluso Prusher.
Della stessa idea sono anche diverse organizzazioni internazionali umanitarie, come Amnesty International, e l’Alto commissariato dell’ONU per i diritti umani, che tramite il suo portavoce ha detto: «Un tentativo di avvicinarsi o superare o danneggiare la barriera non rappresenta una minaccia alla vita delle persone e non è un motivo sufficiente per usare proiettili veri».
Ci sono però anche diversi opinionisti, non necessariamente sostenitori del governo conservatore guidato da Netanyahu, che dicono che Israele ha risposto in maniera corretta e proporzionata. Tra loro c’è Eric Yoffie, ebreo americano liberale, che ha scritto un commento su Haaretz che si intitola: «Se si definisce il numero di morti a Gaza «sproporzionato», quanti israeliani devono morire in nome della simmetria?». Yoffie ha definito «tragico» quello che è successo nella Striscia lunedì, ma poi si è chiesto in maniera retorica: se tra gli israeliani fossero state uccise un centinaio di persone, la stessa reazione dei soldati israeliani sarebbe stata accettabile? Sarebbe stata perdonata più facilmente dal mondo? È una domanda importante, sostiene Yoffie, perché se i miliziani di Hamas fossero riusciti a superare la barriera e a raggiungere le città israeliane al confine avrebbero potuto uccidere molti civili, come avevano già tentato di fare in passato usando i tunnel sotterranei e i razzi artigianali.
Un altro aspetto da considerare riguarda il ruolo di Hamas in tutta questa storia. Mercoledì uno dei leader di Hamas, Salah al Bardaweel, ha detto che quasi tutti i palestinesi uccisi nella Striscia facevano parte del gruppo, riportando dati che ha definito “ufficiosi”, e che per ora non sono stati confermati dal portavoce ufficiale di Hamas. Con le sue dichiarazioni, Bardaweel ha di fatto smentito chi sosteneva che i morti fossero civili senza legami con gruppi palestinesi radicali.
Questo è un problema noto da tempo e legato a un certo tipo di narrazione delle proteste, ha scritto Matti Friedman, che per un periodo fu capo della redazione di Associated Press a Gerusalemme. Friedman ha raccontato sul New York Times di come Hamas abbia capito nel corso degli anni l’importanza di manipolare la stampa straniera, che spesso è alla ricerca di una facile distinzione tra “buoni” e “cattivi”. «Se l’arma più efficace in una campagna militare sono le fotografie dei civili uccisi, sembra avere concluso Hamas, non c’è bisogno di fare una campagna [di propaganda apposita]. Basta far sì che le persone vengano uccise in favore di camera. Il modo migliore di fare tutto questo a Gaza, dove non ci sono soldati israeliani, è provare a superare il confine con Israele, che tutti sanno sarà difeso con forze letali e che è facile da filmare». In pratica, scrive Fiedman, un aspetto che è stato ampiamente sottovalutato in tutta questa storia, e che invece dovrebbe essere tenuto a mente quando si parla di proporzionalità della risposta israeliana, è quello della responsabilità di Hamas.
Quello che si può dire è che tra osservatori e opinionisti non c’è una risposta univoca alla domanda: era «strettamente necessario» per i soldati israeliani usare armi da fuoco contro i palestinesi della Striscia? È difficile dire qualcosa di conclusivo – come si è visto ci sono diverse questioni in ballo – anche se molti esperti di diritto internazionale propendono per sostenere che no, non era «strettamente necessario».
Noam Lubell, docente di diritto internazionale all’Università dell’Essex, in Inghilterra, ha detto a BBC che il diritto bellico prevede la possibilità di usare armi letali contro certe categorie di individui, tra cui i combattenti che partecipano a un conflitto e i civili che prendono parte ad atti violenti e ostili. Non prevede però la possibilità di sparare sui civili che partecipano a una protesta o a una manifestazione. Il punto, ha aggiunto Lubell, è stabilire quando un civile possa essere considerato impegnato in atti ostili e violenti: se è più facile includere in questa categoria i palestinesi in procinto di usare armi ed esplosivi, è più difficile farlo per quelli disarmati che semplicemente si avvicinano alla barriera che divide la Striscia da Israele. «Quest’ultima sarebbe un’interpretazione troppo ampia [della norma] per consentire l’uso diretto di una forza letale», ha concluso Lubell.
La questione è così complessa che diversi analisti e giornalisti israeliani, anche di orientamenti diversi, non hanno saputo dire cosa avrebbe dovuto fare l’esercito israeliano in quella circostanza. Uno di loro, Peter Beinart, giornalista liberale americano e collaboratore frequente di Haaretz, ha scritto: «Sono perfettamente disposto ad ammettere che, nel momento in cui migliaia di manifestanti confluiscono nell’area vicina alla barriera, nessuna delle opzioni che ha a disposizione Israele è buona. Ma è la domanda che è sbagliata». Secondo Beinart, infatti, il problema vero è a monte e riguarda la politica israeliana, più che l’esercito, che sarebbe la vera responsabile della tragica situazione della Striscia di Gaza e della persistente forza di Hamas:
«I leader israeliani hanno deciso di vietare agli agricoltori di Gaza di esportare gli spinaci, le patate e i fagioli. Hanno deciso di vietare ai pescatori di pescare a oltre sei miglia nautiche. Hanno deciso di impedire ai coniugi di lasciare la Striscia per raggiungere i loro mariti o le loro mogli in Cisgiordania, di impedire ai nipoti di andarsene per assistere ai funerali dei loro nonni. Hanno deciso di vietare alle persone di Gaza di importare i pezzi di ricambio necessari per ricostruire la rete elettrica della Striscia»
Il comportamento che hanno tenuto i soldati israeliani lunedì è stato ampiamente criticato all’estero, con l’eccezione degli Stati Uniti, mentre è stato per lo più considerato proporzionato in Israele, dove la minaccia proveniente da Hamas è percepita da sempre in modo molto intenso. In molti casi il diritto internazionale non dà risposte definitive a problemi di questa complessità. La comunità internazionale, per esempio, ha cercato per anni una definizione condivisa del termine “terrorismo”, perché quello che era terrorismo per uno non lo era per l’altro. Il risultato è che spesso le norme sono interpretabili e lasciano ampi margini di applicazione, a seconda dell’opportunità politica.