Forse qualcuno ha ripreso a produrre i gas che causano il buco nell’ozono
I sospetti sono spiegati in una ricerca su Nature: l'anomalo rallentamento nella riduzione dei clorofluorocarburi potrebbe essere dovuto a qualche imprevisto nell'Asia orientale
Un rallentamento anomalo nella riduzione di un tipo di clorofluorocarburi (CFC) – la principale causa della formazione del buco nell’ozono – fa sospettare che in qualche paese sia ripresa la produzione di CFC, in violazione dell’importante accordo internazionale di Montreal ratificato più di 30 anni fa da praticamente tutti i paesi del mondo. L’anomalia è stata segnalata in una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica Nature, grazie a uno studio condotto da un gruppo di ricercatori della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia degli Stati Uniti che si occupa di oceani e meteorologia. Le conclusioni dell’articolo sono molto caute nel trovare un responsabile, ma dimostrano comunque che qualcosa di strano legato ai CFC stia avvenendo nell’Asia orientale.
Nel Novecento i CFC furono impiegati per decenni in numerosi ambiti, dai circuiti refrigeranti dei frigoriferi ai solventi, passando per le bombolette spray. Nel 1985 una ricerca pubblicata su Nature indicò i clorofluorocarburi come i principali responsabili dell’assottigliamento della fascia di ozono, il gas che avvolge il nostro pianeta e che contribuisce a proteggerlo (e proteggerci) dai raggi solari ultravioletti. Con un tempismo che oggi sembra quasi inimmaginabile, visti i tempi degli accordi contro il cambiamento climatico, in pochi anni quasi tutte le nazioni del mondo si misero d’accordo per interrompere la produzione dei CFC e sostituirli con altri gas, in modo da consentire alla fascia di ozono di ripristinarsi. Il protocollo di Montreal è ancora oggi il frutto di quell’impegno e il suo adempimento viene tenuto sotto controllo dalle Nazioni Unite.
La scomparsa dei CFC non è stata naturalmente immediata e la loro emissione in atmosfera continua ancora oggi, anche se a livelli molto più bassi di 30 anni fa. La principale fonte di queste emissioni sono vecchi sistemi refrigeranti e altri apparati che utilizzano ancora i CFC, a cominciare dal CFC-11, uno dei più diffusi per questi scopi. Man mano che frigoriferi e altri macchinari vengono sostituiti, le emissioni si riducono. Il processo richiede molto tempo, ma finora la riduzione era stata tutto sommato costante.
I ricercatori del NOAA hanno notato che tra il 2002 e il 2012 il CFC-11 si è ridotto di 2,1 parti su mille miliardi ogni anno, ma che la sua riduzione è poi rallentata. Tra il 2015 e il 2017 si è infatti attestata a una sola parte su mille miliardi all’anno. Notato il rallentamento, i ricercatori sono andati per esclusione per identificare le possibili cause dell’anomalia.
Lo studio spiega di avere escluso le temporanee variazioni nel trasporto di CFC nell’atmosfera, dovute a particolari eventi meteorologici o a picchi improvvisi di emissioni, che avvengono per esempio quando si demoliscono grandi strutture con al loro interno sistemi refrigeranti. I ricercatori hanno poi valutato le differenze tra i due emisferi. Tradizionalmente la quantità di CFC è maggiore in quello nord (il nostro), perché oltre a essere il più abitato è dove si concentra la maggior parte delle attività industriali. Negli ultimi anni la differenza tra i due emisferi si è accentuata, cosa che però non è avvenuta per altri tipi di gas e questo contribuisce a fare ipotizzare un aumento nella produzione di CFC nell’emisfero nord, più che qualche variazione nei venti e negli eventi meteorologici. Il NOAA ha inoltre notato una correlazione tra le concentrazioni di CFC-11 e alcuni altri tipi di gas, che solitamente provengono da particolari lavorazioni industriali.
Utilizzando modelli matematici e simulazioni, i ricercatori hanno concluso che parte dell’anomalia riscontrata può essere solo spiegata da un aumento di emissioni di CFC-11 nell’Asia orientale. Nei primi anni 2000 la quantità di CFC immessi in atmosfera era pari a circa 54mila tonnellate. I ricercatori stimano che un aumento di 6.500-13.000 tonnellate nell’Asia orientale possa essere sufficiente per rallentare la riduzione globale dei CFC. Anche se con molte cautele, lo studio non esclude che l’aumento possa essere dovuto alla produzione di nuovi CFC, in violazione del protocollo di Montreal.
L’accordo prevede che ogni nazione tenga sotto controllo la produzione di CFC e che periodicamente fornisca i propri dati alle Nazioni Unite. Da qualche parte nell’Asia orientale potrebbe esserci un problema nella gestione dei controlli, con il risultato di avere reso possibile la produzione illegale di nuovi CFC. Gli attuali sistemi di rilevazione non consentono di identificare più accuratamente la fonte, quindi non è possibile indicare uno specifico paese. La ricerca potrebbe comunque portare a richieste di controlli più accurati da parte delle nazioni sospettate di non avere vigilato a sufficienza sulle loro attività industriali.