Gli americani non sono stati i primi ad aprire un’ambasciata a Gerusalemme
Negli anni Cinquanta lo fecero 16 paesi, tra cui uno europeo, ma non andò benissimo
Lunedì l’ambasciata statunitense in Israele è stata ufficialmente spostata da Tel Aviv a Gerusalemme, provocando grandi proteste dei palestinesi della Striscia di Gaza e della Cisgiordania. L’evento, di enorme significato politico e simbolico, è stato celebrato con una cerimonia nel nuovo edificio dell’ambasciata, nel quartiere Arnona, mentre al confine tra la Striscia e Israele decine di manifestanti palestinesi venivano uccisi dai soldati e cecchini israeliani. La controversa decisione di Donald Trump di spostare l’ambasciata a Gerusalemme, cioè nella città più contesa della storia, sta avendo un grande impatto in Israele. Non è la prima volta però che un paese straniero decide di aprire la sua massima rappresentanza diplomatica a Gerusalemme: era già successo all’inizio degli anni Cinquanta con le ambasciate di ben 16 stati, tra cui uno europeo.
Le aperture delle prime ambasciate a Gerusalemme risalgono agli anni successivi alla prima guerra arabo-israeliana, che si combatté dopo la nascita dello stato d’Israele, nel 1948. La guerra fu dichiarata da diversi paesi arabi contro Israele e fu vinta da Israele: di conseguenza centinaia di migliaia di palestinesi furono costretti a lasciare le loro case in quello che oggi viene ricordato come il grande esodo del 1948, conosciuto nel mondo arabo come “nakba”, la “catastrofe”. Da allora lo status di Gerusalemme è rimasto sospeso, diciamo così.
Nel 1947 l’ONU aveva proposto che Gerusalemme, in quanto città sacra alle tre principali religioni (cristianesimo, ebraismo e islam), fosse “internazionale” e accessibile a tutti i cittadini del mondo: i negoziatori israeliani avevano accettato il piano, i palestinesi no. Con l’armistizio che mise fine alla guerra del 1948, Gerusalemme fu quindi tagliata in due: i territori a est furono dati alla Giordania, quelli a ovest a Israele. Nel 1950, però, il governo israeliano dichiarò Gerusalemme sua “capitale eterna” e parte inseparabile dello stato d’Israele. Negli anni successivi ben 16 stati aprirono la loro ambasciata in città, nonostante il suo status ancora poco definito: tre paesi africani (Costa d’Avorio, Zaire, che ora è Repubblica Democratica del Congo, e Kenya), dodici latinoamericani (Bolivia, Cile, Colombia, Costa Rica, Repubblica Dominicana, Ecuador, El Salvador, Panama, Uruguay, Venezuela, Guatemala e Haiti) e uno europeo, i Paesi Bassi.
A quel tempo, scrive Haaretz, l’apertura di un’ambasciata a Gerusalemme non significava necessariamente un riconoscimento della città come capitale d’Israele. L’idea prevalente era che lo status di Gerusalemme era ancora sospeso e che sarebbe stato definito tramite i negoziati tra israeliani e palestinesi. C’era anche l’idea che uno stato palestinese sarebbe nato prima o poi, e che Gerusalemme sarebbe stata una capitale condivisa: la parte est sarebbe diventata capitale palestinese, quella ovest capitale israeliana. Tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, però, tutti questi paesi chiusero progressivamente le loro rispettive ambasciate a Gerusalemme. In mezzo successero due cose: la guerra dello Yom Kippur del 1973 e l’approvazione della “Legge fondamentale” da parte del Parlamento israeliano nel 1980.
La guerra dello Yom Kippur iniziò il 6 ottobre, il giorno dello Yom Kippur, la festività più solenne del calendario ebraico. Israele fu attaccato contemporaneamente dall’Egitto di Anwar Sadat e dalla Siria di Hafez al Assad, entrambi esponenti del movimento nazionalista panarabo e intenzionati a riconquistare i territori ottenuti da Israele con la Guerra dei sei giorni del 1967. Dopo i primi giorni di grandi perdite, l’esercito israeliano reagì e respinse gli attacchi. Dalla parte degli arabi si schierarono in molti, tra cui il Movimento dei paesi non allineati (NAM), organizzazione nata negli anni Cinquanta con l’obiettivo di proteggere gli stati che non volevano schierarsi con nessuna delle due superpotenze della Guerra fredda, Stati Uniti e Unione Sovietica. Nel NAM c’erano anche diversi stati africani, tra cui la Costa d’Avorio, lo Zaire e il Kenya, che decisero di interrompere le relazioni diplomatiche con Israele e chiudere le rispettive ambasciate (PDF). Tutti e tre i paesi ripresero i rapporti con il governo israeliano nel corso degli anni Ottanta, ma i loro ambasciatori si stabilirono a Tel Aviv.
Gli altri 13 stati chiusero le loro ambasciate a Gerusalemme nel 1980, dopo l’approvazione della Legge fondamentale su Gerusalemme, che stabiliva che la città sarebbe rimasta «la capitale unita e completa di Israele». Nonostante la nuova legge non cambiasse la situazione in vigore a Gerusalemme dal 1967, il Consiglio di sicurezza dell’ONU percepì la mossa come una provocazione e la definì una violazione del diritto internazionale. La risoluzione – che fu approvata nell’agosto 1980 con il voto favorevole di tutti i membri permanenti con potere di veto ad eccezione degli Stati Uniti, che si astennero – chiedeva agli stati dell’ONU di non riconoscere la Legge fondamentale e di ritirare le missioni diplomatiche da Gerusalemme. E così successe, anche se Costa Rica ed El Salvador riaprirono le loro ambasciate a ovest nel 1984, per poi chiuderle di nuovo nel 2006.
Nonostante la condanna del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, negli anni successivi Israele continuò a rafforzare il suo controllo su Gerusalemme, approvando emendamenti della Legge fondamentale che introducevano maggioranze qualificate per approvare qualsiasi proposta di cessione di sovranità di parti della città a stati stranieri. Ancora oggi il governo israeliano considera Gerusalemme la sua capitale, e a Gerusalemme ci sono gli edifici del governo e del Parlamento israeliani. È per questo che gli eventi degli ultimi giorni sono stati così importanti: non si sta parlando solo di un ufficio diplomatico, ma di molto di più.