Il 13 maggio 1978 furono aboliti i manicomi
Storia ed eredità della legge Basaglia, che cambiò il modo di pensare alla "salute mentale" e migliorò le condizioni dei pazienti
Il 13 maggio 1978 il Parlamento italiano approvò la cosiddetta “legge Basaglia“, che abolì i manicomi, cioè gli ospedali psichiatrici in cui venivano rinchiuse contro la loro volontà le persone con disturbi mentali, e restituì loro il diritto di cittadinanza. La legge Basaglia fu la prima legge al mondo ad abolire gli ospedali psichiatrici: a scriverla e promuoverla fu il deputato della Democrazia Cristiana e psichiatra Bruno Orsini. Il suo nome, però, è dovuto a Franco Basaglia, uno psichiatra che con il suo lavoro fece cambiare il modo di pensare alla “salute mentale”, non solo in Italia.
Ancora oggi, e specialmente in occasione del suo anniversario, si parla spesso degli importanti cambiamenti introdotti dalla legge Basaglia. Secondo molti psichiatri lo spirito con cui fu scritta dovrebbe essere in un certo senso ripreso, per discutere nuove riforme nei metodi usati per assistere le persone con problemi psichiatrici, per esempio vietando la contenzione meccanica, cioè la pratica di legare i pazienti ai letti.
Prima della legge Basaglia
Nel 1978 in Italia c’erano 98 ospedali psichiatrici che ospitavano più di 89mila persone ed erano regolati dalla legge 36 del 1904, proposta dall’allora presidente del Consiglio Giovanni Giolitti: fu quella che istituì ufficialmente i manicomi (esistevano anche prima, ma non erano regolamentati) e diede ai loro direttori la responsabilità civile e penale delle persone dimesse. Il primo articolo diceva:
«Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi».
Per decenni moltissime persone furono rinchiuse nei manicomi perché ritenute “devianti”. Tra queste c’erano anche omosessuali e prostitute. Il passaggio sul «pubblico scandalo» contenuto nella legge del 1904 giustificava l’internamento di chi era considerata inadatta al ruolo di moglie e madre, richiesto alle donne dalla società del tempo: per questo finivano in manicomio donne considerate “ninfomani”, “indemoniate” o “malinconiche”, cioè probabilmente affette da depressione clinica.
I ricoveri avvenivano in modo coatto, su richiesta di chiunque segnalasse la presunta pericolosità della persona in questione. Dopo un primo periodo di internamento provvisorio, i ricoveri potevano diventare definitivi. Dall’introduzione del cosiddetto codice Rocco, il codice penale fascista entrato in vigore nel 1931, e fino al 1968, gli internati cominciarono a essere iscritti nel casellario giudiziario. Durante il regime fascista i manicomi furono usati anche per imprigionare dissidenti politici: dal 1926 al 1941 gli internati passarono da 60mila a 96mila.
Tra le cose che oggi sembrano più incomprensibili riguardo ai manicomi c’è il trattamento che subivano i bambini. Come racconta il webdoc Matti per sempre, realizzato dalle giornaliste Maria Gabriella Lanza e Daniela Sala, non esistevano limiti di età per il ricovero: bastava un certificato medico che dichiarasse il bambino pericoloso per sé o per gli altri, e per questo spesso venivano internati anche bambini piccolissimi solo perché le famiglie non potevano o non volevano prendersene cura. Alcuni, per esempio, avevano semplicemente dei disturbi dell’apprendimento, oppure erano iperattivi. Dal 1913 al 1974 nel manicomio Santa Maria della Pietà di Roma furono internati 293 bambini con meno di 4 anni, e 2.468 tra i 5 e i 14 anni.
Sia i bambini sia gli adulti ricoverati in manicomio erano più prigionieri che pazienti: spesso soffrivano il freddo, erano tenuti in condizioni di scarsa igiene e malnutrizione dovute anche al sovraffollamento delle strutture, subivano trattamenti con le camicie di forza e l’elettroshock, che si supponeva avessero funzioni terapeutiche in quanto stordivano e rendevano passivi gli internati. Soprattutto nei primi decenni dall’istituzione dei manicomi si sapeva ancora pochissimo di molte patologie psichiatriche: per questo più che curare i pazienti si tendeva a sedarli e “contenerli”. Una serie di leggi, poi, privava in molti casi le persone considerate “alienate” della cittadinanza, e in particolare del diritto di voto.
I manicomi cominciarono a cambiare nel 1968, grazie a una legge proposta dal ministro della Sanità socialista Luigi Mariotti, che nel 1965 aveva paragonato i manicomi ai campi di concentramento nazisti. La legge, la numero 132 del 12 febbraio, fissò un massimo di 500 posti letto per i manicomi, al fine di evitare il sovraffollamento, abolì l’iscrizione al casellario giudiziario degli internati e introdusse il ricovero volontario con la speranza che nel tempo sarebbe diventato la modalità principale di ricovero.
Negli anni precedenti Franco Basaglia era diventato il direttore del manicomio di Gorizia e aveva cominciato a sperimentare nuovi modi per assistere le persone con problemi psichiatrici: eliminò ogni metodo di contenzione fisica, così come le terapie con elettroshock, fece aprire i cancelli dei reparti e introdusse varie attività ricreative per gli internati, che per la prima volta dopo anni di prigionia poterono visitare il mondo esterno, accompagnati.
Proprio all’inizio del 1968, anno dell’introduzione della legge Mariotti, Basaglia pubblicò il saggio L’istituzione negata, in cui raccontò in modo divulgativo la sua esperienza di direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia. Il libro ebbe molto successo e Basaglia divenne noto in tutta Italia e poi nel mondo. Dopo il manicomio di Gorizia, dal 1969 al 1971 Basaglia diresse quello di Colorno, in provincia di Parma, che nel 1968 era stato occupato da un gruppo di studenti che voleva una riforma dei manicomi; poi passò a quello di Trieste. Nel 1973 la città fu scelta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per sperimentare nuove forme di cura per le persone con problemi di salute mentale e nello stesso anno Basaglia fondò il movimento Psichiatria Democratica, un gruppo di psichiatri attivisti intenzionati a cambiare il proprio mestiere e a far chiudere i manicomi.
La questione dei manicomi fu messa al centro di un esteso dibattito anche grazie al documentario Matti da slegare, realizzato da Silvano Agosti, Marco Bellocchio, Sandro Petraglia e Stefano Rulli nel manicomio di Colorno. Vinse il Gran premio della giuria al festival del cinema di Berlino del 1976.
L’impegno di Basaglia ispirò la legge che porta il suo nome e che, oltre ad abolire i manicomi e a restituire la cittadinanza alle persone con problemi di salute mentale, eliminò la pericolosità dai criteri per cui una persona deve essere curata e istituì gli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) al posto dei manicomi criminali. Inoltre introdusse il trattamento sanitario obbligatorio (TSO) nel caso di pazienti con «alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall’infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra ospedaliere», sempre «nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione».
Dopo la legge Basaglia
Formalmente la legge Basaglia ebbe una vita molto breve, dato che a pochi mesi dall’approvazione fu sostituita dalla legge numero 833 del 23 dicembre 1978, che istituì il Servizio Sanitario Nazionale, comprendente quasi gli stessi articoli per quanto riguarda la cura dei malati mentali. La loro applicazione richiese però molto tempo, e avvenne con tempistiche diverse a seconda delle regioni, visto che la legge Basaglia aveva affidato agli enti locali il rimpiazzo dei manicomi. Ci vollero circa vent’anni perché fosse completato, e gli ospedali psichiatrici fossero sostituti da centri di salute mentale (CSM), centri diurni (CD) per chi dorme a casa, strutture residenziali per chi ha bisogno di assistenza per lunghi periodi e servizi psichiatrici di diagnosi e cura (SPDC), cioè i reparti psichiatrici degli ospedali in cui avvengono ricoveri volontari e obbligatori 24 ore al giorno.
In un certo senso, però, si può dire che la rivoluzione cominciata con la legge Basaglia è continuata fino ad anni molto recenti, e secondo molti non ancora finita. Solo con la legge 9 del 2012 e la legge 81 del 2014 è stata stabilita anche la chiusura dei sei ospedali psichiatrici giudiziari (OPG), le cui condizioni erano ancora troppo simili a quelle dei vecchi manicomi. La chiusura effettiva di queste strutture è stata completata nel 2017; ora al loro posto ci sono le residenze per le misure di sicurezza (REMS), strutture sanitarie residenziali con non più di 20 posti letto, che comunque continuano a presentare aspetti problematici e suscitare critiche.
Anche gli SPDC e i CSM sono comunque spesso oggetto di critiche da alcuni psichiatri. In un’intervista all’ANSA lo psichiatra Massimo Cozza, coordinatore del Dipartimento salute mentale (DSM) ASL Roma 2, ha spiegato che tra regione e regione ci sono molte differenze nei servizi di cura alle persone con disturbi mentali e ha segnalato il grosso problema della carenza di personale: «Quello dei DSM è di 29.260 unità, sotto lo standard di 1 su 1.500 abitanti indicato dal Progetto obiettivo salute mentale 1998-2000, secondo il quale gli operatori dipendenti dovrebbero essere circa 40mila. Inoltre i fondi sono insufficienti».
Oggi un aspetto spesso criticato delle cure alle persone con disturbi psichiatrici è il TSO, che talvolta viene praticato in maniera violenta e che in alcuni casi, come quello del torinese Andrea Soldi, ha portato alla morte dei pazienti. Critiche simili sono spesso state rivolte alla contenzione meccanica, cioè la pratica di legare ai letti i pazienti difficili da controllare. Viene giustificata usando l’articolo 54 del codice penale che stabilisce che non sia punibile chi lega una persona «per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave».
Una ricerca del 2004 finanziata dal ministero della Salute – la più recente fonte di dati su questo aspetto – aveva stimato che la contenzione meccanica venisse praticata nel 60 per cento degli SPDC, su undici pazienti su cento. Non si sa con certezza in quale misura la contenzione meccanica sia usata oggi, anche se dal 2006 esiste un’associazione, il Club di SPDC no restraint, i cui membri dichiarano di non usare la contenzione meccanica nei propri reparti: ne fanno parte gli psichiatri di 21 dei 329 SPDC italiani.