La storia più islandese di sempre
C'entrano un furto di computer, un'evasione – legale! – da un carcere e un aereo su cui volava la prima ministra
Da oltre quattro mesi in Islanda si parla con grande eccitazione di quella che, secondo i media locali, è la più grande rapina mai avvenuta nel paese, l’inospitale e isolata isola nell’estremo nord dell’Europa. La rapina ha una storia effettivamente singolare, e non solo perché è avvenuta in un posto in cui i crimini non sono propriamente all’ordine del giorno, ma anche perché la refurtiva consiste in computer usati per “estrarre” bitcoin, e perché l’unico sospettato è evaso dal poco sicuro carcere in cui era rinchiuso. A rendere ancora più islandese la storia, ora c’è il dubbio che evadere fosse un suo diritto.
Andiamo con ordine. La rapina è avvenuta con quattro colpi distinti tra dicembre e gennaio, in due diversi centri per l’estrazione di bitcoin vicino a Reykjavik, nel sud ovest dell’isola. In tutto furono rubati 600 computer, per un valore totale di oltre un milione e mezzo di euro. Quello dell’estrazione dei bitcoin –”mining”, in gergo – è un business relativamente nuovo, che esiste da pochi anni: semplificando, ci sono grandi capannoni posti in luoghi solitamente isolati, dentro ai quali centinaia o migliaia di computer partecipano a una specie di “gara” mondiale per risolvere i problemi crittografici che autenticano le transazioni nel sistema Bitcoin. In pratica questi computer, con la loro potenza di calcolo, contribuiscono al funzionamento della criptovaluta, e per questo i loro proprietari ricevono in cambio un certo numero di bitcoin.
Il “mining” è un business che è stato molto criticato per il suo impatto ambientale, visto che estrarre bitcoin richiede enormi quantità di energia. Ma finora non c’erano stati grossi problemi di sicurezza. La maggior parte dei centri di estrazione di bitcoin si trova nelle zone disabitate di Cina, Mongolia e Russia, ma da qualche anno si sono diffusi anche in Canada e in Islanda, dove il clima freddo rende più facile raffreddare i computer.
Solitamente i furti di criptovalute avvengono a distanza, compiuti da criminali informatici; è capitato poi, in casi più rari, che delle persone venissero minacciate fisicamente perché rivelassero la password del proprio portafogli virtuale. Ma in Islanda, dove i crimini sono molto rari e le misure di sicurezza generale molto blande, si è verificato uno dei primi casi al mondo di furto su larga scala dell’attrezzatura necessaria per estrarre i bitcoin. Finora la polizia non ha trovato i computer rubati, nemmeno provando a controllare consumi anomali di energia sulla rete elettrica dell’isola e seguendo le segnalazioni ricevute a un apposito numero telefonico. La società che li possedeva ha messo in palio 60mila dollari per chi aiuterà a ritrovarli.
Alcune settimane dopo il furto la polizia arrestò e interrogò 11 sospetti, uno dei quali, un 31enne di nome Sindri Stefansson, fu tenuto in prigione. A inizio febbraio i media islandesi cominciarono quindi a parlare di lui come della “mente” dietro al colpo, anche se la polizia non riuscì a fornire nessuna prova che lo collegasse al crimine. Stefansson fu detenuto nel carcere di Sogn, non lontano da Reykjavik, in una struttura che viene descritta come “prigione aperta”. I detenuti infatti hanno stanze private, televisioni a schermo piatto, possono usare il proprio telefono cellulare e guadagnano circa quattro euro all’ora cucinando o svolgendo altri lavori.
Intorno alla prigione c’è una rete non molto alta che Stefansson ha scavalcato lo scorso 17 aprile, poco dopo aver prenotato dal proprio telefono un volo per Stoccolma con un nome falso. Ha raccontato di aver camminato fino alla strada principale, di aver fatto autostop fino a Keflavik, la città dell’aeroporto, e poi di aver percorso l’ultimo tratto di strada in taxi. Secondo la polizia, invece, è stato un complice a portarlo all’aeroporto. In ogni caso, Stefansson è poi salito senza problemi sull’aereo, a bordo del quale, per una coincidenza sulla quale i media islandesi hanno insistito molto, c’era anche la prima ministra del paese Katrín Jakobsdóttir.
Da Stoccolma, Stefansson ha raggiunto prima la Germania, passando per la Danimarca, e poi si è fatto portare da alcuni conoscenti ad Amsterdam. Poche ore dopo aver raggiunto la città, però, è stato arrestato dalla polizia locale che aveva ricevuto una segnalazione da alcuni passanti. La foto segnaletica di Stefansson era infatti stata ampiamente diffusa: ai giornali ha raccontato che l’aveva scoperto appena atterrato in Svezia, e di essersi per questo subito pentito di essere scappato. In tutto Stefansson è stato latitante per cinque giorni.
Venerdì scorso Stefansson è stato estradato in Islanda, anche se ci sono dubbi sul fatto che sia davvero lui il responsabile della rapina. Poiché è stata piuttosto elaborata, la polizia ritiene che sia stata compiuta in collaborazione con una rete criminale internazionale. Stefansson ha precedenti solo per reati minori, come possesso di droga, guida in stato di ebbrezza e il furto dell’equivalente di 2.000 euro dalle slot machine di un bar di Reykjavik. Non sono stati trovati collegamenti con criminali internazionali, e lui ha detto che da sette anni lavora come designer di app. Due giorni dopo l’arresto, ha raccontato, si sarebbe dovuto trasferire con la moglie e i suoi tre figli in Spagna, per iniziare una nuova vita.
Tra i reati per i quali Stefansson potrebbe essere formalmente incriminato, in ogni caso, non ci sarà l’evasione. Come ha spiegato il New York Times, infatti, evadere dal carcere in Islanda non è un crimine: «il nostro sistema immagina che una persona privata della sua libertà proverà a riconquistarla. È responsabilità delle autorità della prigione tenerla all’interno», ha spiegato Jon Gunnlaugsson, ex giudice della Corte Suprema islandese.
Inoltre, la detenzione di Stefansson potrebbe essere stata illegale nel momento della fuga: lo stato di fermo convalidato da un giudice era infatti scaduto da alcune ore, e Stefansson non era stato formalmente arrestato. Sembra che la polizia gli avesse però fatto firmare un documento in cui acconsentiva di essere trattenuto in prigione volontariamente. Mentre era in fuga, Stefansson ha addirittura scritto una lettera ai giornali locali in cui si diceva stupito di essere al centro di una caccia all’uomo internazionale. Ma una volta in carcere ad Amsterdam, Stefansson ha fatto di tutto per accelerare la sua estradizione, perché in confronto «le prigioni islandesi sono come hotel», ha detto al New York Times.