Le monetine davanti all’Hotel Raphael
25 anni fa Bettino Craxi fu contestato all'uscita da un albergo, in quella che nel tempo è diventata la scena simbolo della fine della Prima Repubblica
La sera del 30 aprile del 1993, esattamente 25 anni fa, il segretario del Partito Socialista Italiano Bettino Craxi decise che non si sarebbe fatto intimidire dai manifestanti che protestavano di fronte all’ingresso dell’Hotel Raphael, l’albergo dove abitava quando si trovava a Roma. Ignorò chi gli consigliava di uscire dal retro dell’hotel e scelse di affrontare i contestatori.
Poche ore prima, la Camera aveva respinto quattro delle sei autorizzazioni a procedere per corruzione e ricettazione che la magistratura aveva richiesto contro di lui. I manifestanti erano lì per contestarlo: dopo dieci mesi a seguire le vicende dell’inchiesta Tangentopoli, consideravano Craxi il simbolo più importante del malcostume e della corruzione diffusa in tutto il paese.
Così non appena Craxi uscì dalla porta partirono prima i cori e poi, quasi subito, una pioggia di oggetti: sassi, sigarette, pezzi di vetro e soprattutto monetine. Chi non lanciava nulla – alcuni la definirono “un’aggressione” – teneva in mano banconote da mille lire e cantava “Bettino vuoi pure queste?”. Secondo i molti che raccontarono l’episodio, quella scena non mise fine soltanto alla carriera di Craxi come uomo politico, ma a un’intera stagione politica.
Non fu soltanto la vicenda di Craxi a sancire quello che molti hanno chiamato il passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica. Il biennio 1992-93 fu particolarmente traumatico per l’Italia, sotto molti punti di vista: dalle stragi di Capaci e via d’Amelio, in cui la mafia aveva ucciso i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (e altri attentati contro civili e monumenti sarebbero stati compiuti nell’estate del 1993), passando per la crisi economica e monetaria che costrinse il governo di allora a compiere il famoso “prelievo notturno” dai conti correnti di tutto il paese. Altrettanto dirompente fu l’inchiesta Mani Pulite della magistratura di Milano, che seguita da molte altre procure indagò su un vasto sistema di finanziamento illecito dei partiti a cui si accompagnavano gli episodi di corruzione più o meno piccola da parte di decine di esponenti politici.
Il sistema, quindi, si avviava a un cambiamento epocale. Nella primavera del 1993 la situazione politica era questa: il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro aveva promosso la formazione di un governo tecnico, il primo presieduto da un non parlamentare, l’ex governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi. Il governo si era presentato alla Camera il 29 aprile per ricevere la fiducia. In quello stesso giorno era arrivata al suo punto culminante un’altra vicenda fondamentale di quei mesi: la Camera doveva votare sulla richiesta di autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi nell’ambito di sei inchieste diverse.
Quelli che portavano al segretario del PSI erano tra i filoni più importanti dell’inchiesta Mani Pulite, cominciata dieci mesi prima a Milano con l’arresto per corruzione di un altro dirigente socialista, Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, un istituto di assistenza agli anziani. All’epoca, per poter procedere penalmente contro un parlamentare, i magistrati aveva bisogno di richiederne l’autorizzazione alla camera di appartenenza. Così il 29 aprile Craxi prese la parola per difendersi e convincere i suoi colleghi a respingere le richieste di procedere contro di lui. Fu probabilmente il suo discorso più famoso, quello in cui ammise il finanziamento illecito del Partito Socialista, in cui affermò che tutti i partiti avevano fatto la stessa cosa e negò ogni accusa di arricchimento personale.
Quando arrivò il momento di votare, quattro autorizzazioni su sei furono respinte: una mezza vittoria per Craxi, ma molto importante per lui nel clima di quei giorni. Quella sera Craxi tornò all’Hotel Raphael e ricevette un gruppo di amici venuti a congratularsi per il risultato della giornata. Tra loro c’era anche l’imprenditore Silvio Berlusconi, i cui giornali e televisioni erano tra i principali sostenitori dell’inchiesta Mani Pulite, anche se lui personalmente rimaneva amico di Craxi.
Nel frattempo, però, la situazione aveva preso una piega molto negativa per il leader socialista. Dopo il voto contro le quattro autorizzazioni a procedere, il PDS, il partito erede del PCI allora guidato da Achille Occhetto, ritirò l’appoggio al governo tecnico e criticò pesantemente i parlamentari che avevano protetto Craxi. La mattina del 30 aprile i giornali in edicola erano altrettanto indignati. Repubblica titolava: “Vergogna, assolto Craxi”. Il suo direttore, Eugenio Scalfari, scrisse: «Dopo l’uccisione di Aldo Moro, è il giorno più grave della storia repubblicana». Gli altri quotidiani non utilizzavano toni più morbidi.
Craxi, che quel giorno pensava di aver segnato un punto a suo favore, iniziò ad accorgersi che la situazione gli stava sfuggendo di mano già nel pomeriggio, quando durante un’intervista al TG3 registrata per strada una motocicletta gli passò vicino e gli occupanti gli urlarono “ladro” così forte che il grido finì registrato nel servizio. Poche ore dopo il lancio delle monetine fu il risultato di una coincidenza sfortunata. Intorno alle 20 Craxi stava uscendo per andare a registrare un’intervista con Giuliano Ferrara su Canale 5, quando il piccolo spiazzo di fronte all’albergo iniziò a riempirsi. Il giornalista Filippo Facci, all’epoca molto vicino a Craxi, ha raccontato così quella giornata.
Largo Febo, cioè la piazzola davanti al Raphael, in realtà è un buco che le immagini di repertorio restituiscono ogni volta molto più grande: non è che ci stia tutta questa folla, tra auto e polizia e telecamere. Eppure, oggi, a sentir le testimonianze, erano tutti lì. C’erano quelli del MSI, della Lega, c’erano i reduci di un comizio di Achille Occhetto in Piazza Navona, passarono di lì anche molti studenti del Liceo Mamiani che erano in corteo: nell’insieme fu più che sufficiente per far scrivere a tutti che quella era «l’Italia». Il che, tutto sommato, era drammaticamente vero.
Un altro racconto molto diffuso è quello della giornalista RAI Valeria Coiante (sono suoi i commenti che si sentono nel video).
C’eravamo solo noi, quel giorno, io col mio operatore e lui col suo [Coiante era insieme a un giornalista del Tg4]. A un certo punto il cordone dei poliziotti mi allontana dall’operatore, io comincio a dargli istruzioni col microfono, lui era in cuffia, era l’unico modo per comunicare con lui in quel casino: «Rimani sempre acceso, prendi tutto, fammi quelli coi cartelli e con le mille lire… ». La folla urlava sempre di più, un mare di persone si riversava nel vicolo stretto, la polizia infilava i caschi e parava gli scudi. Craxi esce dal portone, esplode un boato, «Eccolo eccolo» urlo nel microfono, mi abbasso e supero il cordone di polizia, corro verso la macchina di Craxi. Vengo investita da una tonnellata di metallo vario in tondini, monete, «stanno tirando di tutto! Pezzi di vetro, monete, tirano di tutto! ». La sera, in montaggio, mentre ero lì che assemblavo il pezzo e pulivo la pista audio, entra in sala Gianni Minoli [allora direttore di RaiDue]. «Fammi vedere», dice. «Aspetta, sto levando l’audio e sto mettendo gli effetti». «No, fammelo vedere così». Va be’, penso io, la voce la levo dopo. «Ok, è incredibile. Perfetto. Va bene così, non toccare niente». «Ma sembro ‘na pazza… fammi levare almeno dove sfondo i livelli». «Non se ne parla, va in onda così». Quel filmato fece sette milioni di telespettatori al primo passaggio».
La vicenda politica di Craxi si concluse di fatto quel giorno. I suoi compagni di partito lo abbandonarono, salvo alcuni, e alle elezioni del 1994, quelle vinte da Silvio Berlusconi, Craxi non fu ricandidato. Poco prima che si insediassero le nuove camere, quando sarebbe decaduta la sua immunità parlamentare e sarebbe stato vulnerabile all’arresto, Craxi fuggì in Tunisia dove sarebbe rimasto fino alla morte, il 19 gennaio del 2000.