L’ultima puntata (forse) della storia del selfie del macaco
Vi ricordate il processo per decidere se un animale può detenere diritti d'autore? Una corte d'appello ha provato a chiudere il caso per sempre
Questa settimana una corte d’appello statunitense ha deciso che non esistono le basi legali perché un macaco, o un animale qualsiasi, possa avere diritti d’autore. È una questione di cui si parla da anni: un macaco si era fatto un selfie con la macchina fotografica di David Slater, un fotografo professionista che l’aveva poi usata come se ne fosse stato l’autore. Wikipedia aveva però scelto di attribuire il diritto d’autore della foto al macaco, così da poterla usare liberamente. E la PETA – un’organizzazione no-profit statunitense che si occupa (in modo spesso aggressivo e controverso) di diritti degli animali – aveva fatto causa a Slater, a nome del macaco. La decisione di questa settimana, per farla breve, ha provato a chiudere definitivamente la questione per evitare nuovi processi simili, dando ragione a Slater e torto alla PETA.
Nelle precedenti puntate
Nel 2011 Slater andò in Indonesia a fotografare una particolare specie di macachi, i cinopitechi, e uno di loro prese la sua macchina fotografica e iniziò a fare e farsi foto: erano perlopiù sfocate e confuse, ma qualcuna era venuta bene, in particolare una in cui la scimmia, chiamata Naruto, fotografava se stessa. Slater decise di usarla come se fosse stata sua, la pubblicò nel suo libro Wildlife Personalities e la vendette a siti e giornali in tutto il mondo. Guadagnò cioè soldi grazie a quella foto.
La PETA, acronimo di People for the Ethical Treatment of Animals, gli fece causa a nome del macaco, che è diventato noto con il nome Naruto, sebbene non si sia nemmeno certi che si tratti di un maschio o una femmina. Nel 2016 una corte federale della California diede ragione a Slater in primo appello, spiegando che le leggi sul copyright non potevano essere applicate a una scimmia. La PETA fece ricorso ma nel settembre 2017 patteggiò con Slater, che accettò di donare il 25 per cento dei futuri guadagni derivanti dalla vendita della foto ad associazioni che proteggono i macachi e alla riserva naturale in cui vive Naruto. In cambio, la PETA decise di rinunciare all’appello. L’opinione prevalente è che la PETA fece quella scelta per tenersi aperta la possibilità, in simili casi futuri, di portare avanti azioni legali simili, evitando che una sentenza rendesse chiaro che nonesistono le basi legali necessarie.
E quindi cos’è successo
La corte d’appello che il 23 aprile si era espressa sul caso ha deciso che era comunque necessario pronunciarsi sulla questione, nonostante il patteggiamento. The Verge ha scritto che l’ha fatto «con l’unico scopo di far capire come stanno le cose alla PETA»; altri sostengono l’abbia fatto perché era una questione che, in futuro, avrebbe potuto riproporsi in casi simili, e serviva quindi un po’ di chiarezza. La corte d’appello, composta da tre giudici, ha scritto: «Come facciamo a evitare che certe persone (o certe organizzazioni, come la PETA) usino gli animali per portare avanti i loro scopi umani?». Ha aggiunto: «Bisogna notare che, mentre sostiene che “gli animali non vanno mangiati, indossati o usati per esperimenti, divertimenti o abusi di altri tipo”, la PETA sembra usare Naruto come un’inconsapevole pedina dei suoi scopi ideologici».
La PETA si era infatti dichiarata “next friend” di Naruto. Negli Stati Uniti è il meccanismo che permette a certe persone di rappresentarne altre, impossibilitate a difendersi (perché in prigione, o perché troppo giovani, per esempio). Perché questo avvenga serve però che il “next friend” dimostri di avere un certo grado di vicinanza con la persona rappresentata. La corte ha deciso che la PETA non ha motivo di ritenersi “next friend” di Naruto e che, comunque, un macaco non può avere diritti d’autore. È quindi impossibile che un fotografo, in questo caso Slater, lo vìoli. La corte ha anche deciso che la PETA dovrà pagare le spese processuali di Slater.
Nella sua decisione la corte ha ricordato un precedente caso simile (noto come Cetacean v. Bush) in cui un uomo fece causa alla marina militare statunitense a nome di tutti i cetacei, le focene e i delfini del mondo. In quel caso era stato notato che la Costituzione degli Stati Uniti non vietava espressamente la possibilità, per degli animali, di ottenere pronunciamenti legali che li riguardassero. Come ha scritto Ephrat Livni su Quartz, «la legge sul copyright degli Stati Uniti non permette agli animali di fare causa. Ma la legge tende a prevedere che esseri non-umani possano cercare ottenere aiuto dalla legge».
È davvero la fine della storia?
The Verge ha scritto che sembra improbabile che, viste le cose scritte dalla corte d’appello, la PETA provi a fare ricorso o a portare il caso alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Ma, tecnicamente, potrebbe decidere di farlo.