Una vittoria contro le minacce dei complottisti delle “scie chimiche”
L'ha ottenuta con un processo la giornalista scientifica Silvia Bencivelli, insultata e minacciata per anni per avere smontato una strampalata e diffusa teoria del complotto
La giornalista e divulgatrice scientifica Silvia Bencivelli ha raccontato in un articolo su Repubblica gli esiti di un processo per le minacce e gli insulti ricevuti in questi anni, in seguito alla pubblicazione di un suo articolo sulla Stampa nel 2013 in cui raccontava la storia delle teorie del complotto sulle cosiddette “scie chimiche”, tra le più popolari e diffuse online. Senza prove concrete, i sostenitori di queste strampalate teorie dicono che misteriosi aeroplani (alcuni anche di linea) disperdano nell’atmosfera sostanze nocive a vario scopo: modificare il clima, diffondere malattie e modificare le opinioni delle persone, nell’ambito di un gigantesco complotto portato avanti dai governi mondiali, dalla CIA o dalle multinazionali.
Nel suo documentato articolo, e in uno successivo, Bencivelli smontò le teorie sulle “scie chimiche”, finendo al centro di continui insulti e minacce (di frequente a sfondo sessuale) soprattutto sui social network, che l’hanno accompagnata per diversi anni causandole non pochi disagi e sofferenze. Bencivelli ha fatto causa ai principali responsabili e ha da poco vinto il processo: “Un giudice lo ha ribadito: non è colpa della vittima se il branco la assale”.
Questa storia è cominciata cinque anni fa, con me che scrivo, tranquilla, alla scrivania. Ed è finita mercoledì, davanti al mare di Imperia, con la mia amica avvocata Cinzia Ammirati che mi scuote le spalle, sorride e ripete: Silvia, hai avuto giustizia, abbiamo vinto, hai vinto! Nel mezzo, decine, forse centinaia, di messaggi di minacce e insulti quasi tutti a sfondo sessuale, una bufera di denigrazioni violente, qualche giorno chiusa in casa per paura, perché non si sa mai. E anni a pensare di aver fatto una stupidaggine. Ma Cinzia me lo ha ripetuto mille volte, e un giudice lo ha ribadito: non è colpa della vittima se il branco la assale. Oggi il capobranco è colpevole, l’udienza è chiusa. E io, la vittima, ancora fatico a respirare.
Mi dicono però che è doveroso raccontare, dall’inizio all’inconsueto lieto fine. Raccontare a chi pensa che tutto sommato non ci sia molto di male a insultare un’estranea su Facebook, fino a chiamarla “troietta in calore” o “puttanella da quattro soldi”, e a chi condivide certi post senza pensarci troppo. Soprattutto che è doveroso raccontare a chi sta vivendo ora una mattanza, ma non ha le risorse e la fortuna che ho io: non ha una Cinzia accanto e non vive sul mio pianeta solido di affetti e sicurezze.
Nel mio caso il branco era quello dei seguaci delle teorie del complotto e in particolare della leggenda delle scie chimiche. In sintesi, chi ci crede pensa che le scie bianche di condensa che a volte si formano nel cielo al passaggio degli aerei sarebbero diffuse da qualcuno (“il potere” o chiunque gli assomigli: gli amerikani, la kasta, il Nuovo ordine mondiale…) per avvelenarci (con gli Ogm, coi metalli pesanti, con le nanoparticelle, con gli alieni… È una teoria customizzabile).
L’articolo raccontava le origini della leggenda e la smentiva in poche banali mosse: mi era stato commissionato da La Stampa nel settembre del 2013 e così come lo avevo scritto era uscito online il 16 mattina. Da un momento all’altro, avevo cominciato a ricevere alcuni strani e rivoltanti messaggi, violenti, spaventosi, in cui mi si augurava di tutto e mi si minacciava di tutto. Compariva anche gente che pretendeva di difendermi, non sapevo bene da che cosa, e mi segnalava che su Facebook c’era un certo signore che a volto aperto, col proprio nome e cognome, istigava decine di persone a scrivermi privatamente, ed erano le stesse di cui stavo ricevendo i messaggi del primo tipo.
Io questo signore non sapevo chi fosse, e nell’articolo niente che lo riguardasse veniva menzionato. Ma lui era la cabina di regia della bufala in Italia, ed evidentemente avevo toccato i suoi interessi. Ragion per cui, proclamava, mi stava “bastonando”.