Il ruolo di Facebook nelle violenze dello Sri Lanka
Le tensioni tra buddisti e musulmani sono alimentate da bufale e messaggi d'odio che Facebook non controlla e non rimuove, come il governo chiede da tempo
All’inizio di marzo il governo dello Sri Lanka aveva proclamato per la prima volta dalla fine della guerra civile, nel 2009, lo stato di emergenza dopo giorni di violenti scontri tra comunità buddista e musulmana nel distretto centrale di Kandy. Ora il governo ha accusato esplicitamente Facebook di aver agito come piattaforma di diffusione d’odio e di non essere intervenuta in alcun modo, nonostante gli impegni formali presi.
La stragrande maggioranza degli srilankesi è buddista (75 per cento), ma ci sono anche comunità induiste, cristiane e musulmane: i musulmani sono circa il 5 per cento della popolazione. Le tensioni tra comunità buddista e musulmana dello Sri Lanka esistono da decenni ma sono diventate più acute dopo la fine della guerra civile, un conflitto iniziato nel 1983 e terminato nel 2009 in cui morirono circa 100 mila persone. La guerra si combatté tra l’esercito srilankese e le Tigri Tamil, un’organizzazione di etnia tamil che rivendicava la creazione di uno stato indipendente nel nord e nell’est dello Sri Lanka. Si riuscì a raggiungere una “pace” solo nel 2009, quando le Tigri Tamil furono definitivamente sconfitte dall’esercito srilankese alla fine di una durissima repressione ordinata dal presidente Mahinda Rajapaksa. Da allora in Sri Lanka è cominciato un lungo e complicato processo di riconciliazione.
Negli ultimi mesi ci sono state di nuovo tensioni e violenze e il New York Times ha pubblicato un lungo reportage per raccontare che cosa è successo e quale sia stato in quegli episodi il ruolo di Facebook, il cui algoritmo privilegia alcuni post più di altri e i cui sistemi di regolamentazione contro l’odio si sono dimostrati chiaramente inefficaci. La tesi è che la rapida espansione di Facebook nei paesi in via di sviluppo e con istituzioni deboli abbia influito in modo negativo, attraverso disinformazione e incitamento all’odio, sulle relazioni sociali e politiche di quello stesso paese. Con conseguenze molto gravi.
Il New York Times ha raccontato un recente episodio avvenuto ad Ampara, una piccola e tranquilla città nella parte orientale del paese. Secondo una serie di post che circolavano su Facebook in lingua cingalese, Ampara era l’oscuro epicentro di un complotto musulmano per sterilizzare e distruggere la maggioranza buddista dello Sri Lanka. Due fratelli musulmani non conoscevano ciò che su Facebook si diceva di Ampara quando decisero di aprire proprio lì il loro ristorante. Lo scorso febbraio un cliente cominciò a protestare dicendo di aver trovato qualcosa nel sua cibo. Il giorno prima una bufala diventata virale su Facebook affermava che la polizia aveva sequestrato a un farmacista musulmano di Ampara 23 mila pillole per la sterilizzazione. Il cliente stava dunque chiedendo se nel suo cibo fossero state messe quelle medicine e aveva attirato attorno a sé un gran numero di persone molto arrabbiate. Uno dei due fratelli, Farsith, un ragazzo di 28 anni che non parlava cingalese, non capì che cosa gli era stato chiesto, fraintese la domanda e per la paura che dire la cosa sbagliata avrebbe aumentato la tensione fece una timida ammissione. La folla, ottenuta una specie di conferma, aggredì fisicamente il ragazzo, distrusse il negozio e incendiò la moschea locale.
La cosa sarebbe potuta finire lì, ma l’ammissione di Farsith era stata ripresa con un cellulare. Nel giro di poche ore un gruppo con molti seguaci su Facebook pubblicò il video, presentandolo come la prova definitiva dei complotti che i musulmani stavano organizzando contro i buddisti. Il video di Ampara ha avuto come conseguenza il moltiplicarsi di messaggi di odio da parte di alcuni gruppi nazionalisti, in cui c’era scritto che era necessario «uccidere tutti i musulmani» e non «risparmiare neanche un bambino».
This is the problem. I got a response to my #HateSpeech report after 6 days. According to @Facebook, this post is not violating their Hate Speech Policy.@fernandoharin @RW_UNP @HarshadeSilvaMP#lka #Digana #Kandy #SocialMediaBan pic.twitter.com/EIJh8bpx0k
— Dumi Jay (@dumindaxsb) March 13, 2018
Un estremista in particolare con migliaia di seguaci su Facebook, Amith Weerasinghe, pubblicò a sua volta dopo qualche giorno un video in cui lo si vedeva camminare tra i negozi di Digana, vicino a Kandy, e spiegare che troppi di quei negozi erano di proprietà di musulmani. Alcuni ricercatori di un’associazione di Colombo, il Center for Policy Alternatives, avevano segnalato la pubblicazione di Weerasinghe insieme ad altri post simili, ma tutto era rimasto online. Tre giorni dopo la violenza era esplosa in diverse città del paese: alcune moschee, negozi e case di proprietà di musulmani erano state incendiate, anche a Digana. Un ragazzo di 27 anni era rimasto coinvolto in un incendio ed era morto.
L’autorità delle telecomunicazioni del paese aveva allora deciso di bloccare l’accesso ai principali social network con l’obiettivo di impedire la diffusione dei messaggi di odio interreligioso: e questo anche perché Facebook aveva deciso di non rimuovere quei post, nonostante le segnalazioni. Quasi tutte le segnalazioni avevano infatti avuto la medesima risposta e cioè che il contenuto non violava gli standard del social network: «C’è un incitamento alla violenza contro intere comunità e Facebook dice che non viola gli standard della sua comunità», ha commentato uno dei ricercatori di Colombo al New York Times. Secondo qualcuno il problema principale sarebbe anche linguistico: Facebook avrebbe pochi moderatori che parlano la lingua cingalese, e quindi risponderebbe con ritardo alle segnalazioni.
Nei paesi in via di sviluppo, Facebook ha avuto e continua ad avere un ruolo molto importante. In Sri Lanka mantiene in contatto tra loro le famiglie i cui membri spesso lavorano all’estero, fornisce uno spazio di comunicazione aperto e libera l’accesso alle informazioni. I funzionari governativi dicono che è stato essenziale per la recente transizione democratica del paese. Dove però le istituzioni sono deboli, i feed di notizie possono inavvertitamente amplificare i pericoli. Facebook promuove ciò che attira di più l’attenzione e diversi studi mostrano che i messaggi che fanno riferimento a emozioni negative come rabbia o paura hanno più successo in termini di condivisioni e diffusione. Facebook non ha ovviamente creato le tensioni etniche dello Sri Lanka: ma ci sono diverse indagini che mostrano come la disinformazione diffusa su Facebook sia collegata a episodi di violenza. «Non incolpiamo Facebook», ha dichiarato Harindra Dissanayake, consigliere presidenziale dello Sri Lanka. «I germi sono nostri, ma Facebook è il vento».
Il problema non è solo dello Sri Lanka. L’anno scorso, in alcune parti dell’Indonesia, su Facebook e WhatsApp si era diffusa la voce che alcune persone rapivano i bambini per vendere i loro organi. Alcuni messaggi includevano foto di corpi smembrati o volantini falsi della polizia. Alla notizia avevano fatto seguito dei pestaggi contro alcuni stranieri sospettati di essere colpevoli. Voci quasi identiche, dice il New York Times, hanno portato ad attacchi simili in India, in Messico e nel Myanmar contro i rohingya.
Negli ultimi giorni i rappresentanti di Facebook in India e il governo di Colombo si sono incontrati, ma l’esito della riunione non è stato considerato soddisfacente dal governo dello Sri Lanka. Sudarshana Gunawardana, il responsabile dell’informazione pubblica del paese, ha parlato del senso di impotenza che provano i funzionari del suo governo. Prima di Facebook c’era un contatto con i responsabili dei media locali, a cui era possibile chiedere di verificare una notizia, di smentirla e di trattarla tenendo conto delle conseguenze. Ora, dicono, è come se le politiche di informazione del paese avessero la loro sede in California. Dopo la diffusione della notizia sul sequestro dei medicinali ad Ampara, ci sono stati degli interventi ufficiali per dire che quelle voci erano false, ma non sono riusciti a eguagliare l’influenza e la “potenza di fuoco” di Facebook.
Facebook, conclude il New York Times, potrebbe fare dei cambiamenti nella gestione del proprio algoritmo, privilegiando per esempio i post di familiari e di amici o impiegando moderatori che parlino il cingalese. La soluzione sarebbe però temporanea e il problema rimarrebbe lo stesso: Facebook esercita un’influenza enorme sulla società dello Sri Lanka, ma lo Sri Lanka non ha alcuna influenza su Facebook.