In Armenia è successa una cosa grossa
Dopo grandi proteste si è dimesso il primo ministro Serzh Sargsyan, al potere da 10 anni e che aveva appena provato a restarci con una manovra autoritaria
Il primo ministro armeno Serzh Sargsyan si è dimesso, dopo che per giorni era stato contestato in una serie di grandi proteste organizzate nella capitale Yerevan e in altre città del paese. Alle proteste, che sono continuate fino a lunedì mattina, hanno partecipato decine di migliaia di persone, che chiedevano proprio le dimissioni di Sargsyan. Il primo ministro era infatti accusato di aver trasformato il paese in uno stato autoritario, con una manovra politica che gli aveva permesso di prolungare il suo potere per un nuovo mandato: dopo aver raggiunto il limite di due mandati da presidente, aveva promosso un referendum per trasformare il paese da repubblica presidenziale a parlamentare, e si era fatto nominare primo ministro.
Soltanto ieri Sargsyan aveva fatto arrestare tre importanti leader dell’opposizione, tra cui il capo delle proteste Nikol Pashinyan, con l’accusa di aver commesso «atti socialmente pericolosi». Pashinyan è stato liberato lunedì e ha detto: «Non aspetterò a dirlo, è già chiaro no? Abbiamo vinto».
Negli scorsi giorni, diversi analisti e osservatori internazionali avevano sottolineato l’importanza delle manifestazioni in Armenia, che sono state pacifiche e organizzate prevalentemente dal basso, grazie a una capillare ed efficiente rete messa in piedi da Pashinyan. Dopo le dimissioni di Sargsyan le proteste sono diventate ancora più rilevanti, visto che hanno apparentemente ottenuto il loro obiettivo, raro caso di manifestazioni di massa di successo nelle ex repubbliche sovietiche. Non è comunque ancora chiaro cosa succederà ora, chi prenderà il potere e che ruolo e che influenza manterrà Sargsyan nella politica del paese.
Crowds cheering in central #Yerevan following Serzh Sargsyan’s resignation as Prime Minister of #Armenia after 11 days of #YerevanProtests (video by Armine Avetisyan) pic.twitter.com/Zg6bdsnelz
— OC Media (@OCMediaorg) April 23, 2018
Il bersaglio delle proteste: Serzh Sargsyan
Sargsyan ha 63 anni ed è stato ai vertici della politica armena fin da quando il paese era ancora una repubblica dell’Unione Sovietica. Negli anni Novanta fu uno dei principali dirigenti del Partito Repubblicano, il primo partito autonomo formato dopo l’indipendenza, di orientamento nazionalista e conservatore, e sostanzialmente erede del Partito Comunista. Dopo essere stato più volte ministro, Sargsyan fu eletto presidente dell’Armenia per un primo mandato nel 2008, e una seconda volta nel 2013. Allora l’Armenia era una repubblica semi-presidenziale, che aveva il limite costituzionale di due mandati per il presidente.
Nel 2015, però, Sargsyan promosse un referendum per trasformare il paese in una repubblica parlamentare, trasformando il presidente in una figura principalmente cerimoniale, e assegnando i poteri principali al primo ministro. Sargsyan presentò la riforma come necessaria per rendere più democratico il sistema politico del paese, e assicurò che non si sarebbe candidato di nuovo: il referendum fu approvato con il 66 per cento dei voti a favore. Gli effetti di quel referendum sono entrati in vigore soltanto questo aprile, e prevedevano anche che il nuovo presidente fosse eletto dal parlamento, ampiamente controllato dal Partito Repubblicano e dai suoi alleati.
Lo scorso 2 marzo il parlamento ha eletto presidente Armen Sarkissian, un ex primo ministro e ambasciatore armeno nel Regno Unito fedele a Sargsyan. Seguendo la costituzione armena, il primo ministro Karen Karapetyan ha dato le sue dimissioni prima dell’insediamento di Sarkissian, all’inizio di aprile. A quel punto, contrariamente a quanto aveva assicurato, Sargsyan si è fatto eleggere dal parlamento nuovo primo ministro – diventato il ruolo più importante della politica armena – con 77 voti a favore e 17 contrari. Il controllo di Sargsyan sul parlamento è tale che hanno votato per lui anche la maggior parte dei membri dell’opposizione. Con questa manovra si era assicurato il potere fino a un’eventuale sfiducia dall’attuale parlamento, o fino alle nuove elezioni previste per il 2022.
Chi c’è dall’altra parte
Dal 13 aprile, pochi giorni dopo l’annuncio della candidatura di Sargsyan, migliaia di persone hanno manifestato per le strade della capitale Yerevan e di altre città. Le proteste sono state organizzate da Pashinyan, 42enne tra i leader del Congresso Nazionale Armeno, partito liberale di opposizione fondato nel 2008 dal primo presidente del paese, Levon Ter-Petrosyan. Pashinyan è da almeno un decennio tra i più attivi oppositori politici di Sargsyan, prima come giornalista e poi come politico. Dopo le violente proteste del 2008, quando Ter-Petrosyan perse le elezioni contro Sargsyan, Pashinyan dovette nascondersi dalla polizia. Decise poi di costituirsi, e dopo due anni di carcere fu liberato per un’amnistia politica.
Attualmente Pashinyan è a capo di Yelk, una nuova formazione politica considerata erede del Congresso Nazionale Armeno, che alle ultime elezioni ha preso meno dell’8 per cento e ha 9 seggi in parlamento. Il principale gruppo di opposizione, Armenia Prosperosa, che è a sua volta di orientamento liberale e ha 31 seggi in parlamento, ha invece mantenuto a lungo una posizione ambigua sulle proteste. Alcuni suoi parlamentari avevano votato per la nomina di Sargsyan, e il partito ha accolto l’invito di Pashinyan a unirsi alle proteste soltanto lunedì, poco prima che Sargsyan annunciasse le dimissioni.
Nonostante le grandi manifestazioni, le opposizioni non erano riuscite a impedire l’elezione di Sargsyan. Erano comunque continuate nei giorni successivi alla sua nomina – avvenuta martedì 17 aprile – per chiedere più genericamente maggiore democrazia e per resistere a quello che è stato visto come un tentativo di trasformare il paese in un regime autoritario. Su Al Jazeera, la docente di scienze internazionali Anna Ohanyan ha scritto che le recenti proteste armene non hanno precedenti nel paese, per come sono state organizzate dal basso, per la loro disciplina, per la loro natura pacifica e per le loro dimensioni. Pashinyan stesso le ha definite «una rivoluzione di velluto». Lunedì si sono uniti alle proteste circa 200 soldati armeni.
#Armenia 🇦🇲: Armenian soldiers storm out of their barricades in #Yerevan to join the anti-government strikes pic.twitter.com/z1c1qwjIoj
— Thomas van Linge (@ThomasVLinge) April 23, 2018
Le dimissioni
In un comunicato, Sargsyan ha detto: «Mi rivolgo ai cittadini armeni e al movimento “Respingi Serge”. Nikol Pashinyan aveva ragione. Io avevo torto. Questa situazione richiede soluzioni, ma io non parteciperò. Lascerò l’incarico di primo ministro. Il movimento sceso per le strade è contro di me. Soddisferò le vostre richieste». Soltanto ieri, Sargsyan aveva incontrato Pashinyan per un colloquio in presenza di molti giornalisti. Non era andata bene: Sargsyan si era subito detto soddisfatto che il suo oppositore avesse accettato di trattare, ma Pashinyan aveva risposto che doveva esserci stato un malinteso, perché lui era lì soltanto per discutere le condizioni delle dimissioni di Sargsyan.
L’incontro tra Sargsyan, a sinistra, e Pashinyan, a destra.
Il primo ministro aveva allora lasciato l’incontro, accusando le opposizioni di aver messo in atto «un ultimatum, un ricatto dello stato, delle legittime autorità». Pashinyan aveva commentato dicendo che Sargsyan non aveva più il potere, passato ormai nelle mani dei cittadini, e che la situazione in Armenia era «diversa da quella che conoscevate 15-20 giorni fa». Prima di essere arrestato, aveva chiesto ai manifestanti di continuare a occupare pacificamente le piazze dei palazzi delle istituzioni.
Occidente e Russia
La crisi armena è stata principalmente una storia di politica interna, ma si porterà dietro comunque delle conseguenze in termini di relazioni internazionali tra Russia, Turchia e Occidente. Come tutte le repubbliche dell’Unione Sovietica, una volta ottenuta l’indipendenza, nel 1991, l’Armenia si ritrovò davanti la scelta tra Occidente e Russia. Sargsyan, che è sempre stato accusato di essere vicino al presidente russo Vladimir Putin, nel 2013 rifiutò un importante accordo di integrazione economica con l’Unione Europea, scegliendo invece di entrare nell’Unione economica eurasiatica, cioè firmando l’equivalente russo di quell’accordo.
Da allora, Sargsyan ha detto di voler migliorare i rapporti con l’Unione Europea, e il parlamento aveva approvato un accordo per una migliore integrazione economica soltanto lo scorso 11 aprile. Attualmente la posizione internazionale dell’Armenia è complicata anche dai tesi rapporti con la Turchia e l’Azerbaigian, che hanno chiuso i propri confini con il paese per via della storica disputa territoriale sul Nagorno Karabakh, la regione montagnosa contesa, a maggioranza armena ma internazionalmente riconosciuta come appartenente all’Azerbaigian.