L’omicidio di Roberto Ruffilli, trent’anni fa
Era un senatore della DC e un consulente di Ciriaco De Mita per le riforme istituzionali: fu ucciso dalle Brigate Rosse
Roberto Ruffilli, senatore della DC e consulente di Ciriaco De Mita per le riforme istituzionali, fu ucciso dalle Brigate Rosse il 16 aprile di trent’anni fa a Forlì: per essere stato «l’uomo di punta che ha guidato in questi ultimi anni la strategia democristiana sapendo concretamente ricucire, attraverso forzature e mediazioni, tutto l’arco delle forze politiche intorno a questo progetto, comprese le opposizioni istituzionali». Così c’era scritto nella rivendicazione dell’omicidio.
Roberto Ruffilli era nato a Forlì il 18 febbraio del 1937 (quando venne ucciso aveva cinquantun anni), aveva frequentato Scienze Politiche alla Cattolica di Milano occupandosi in particolare dell’evoluzione dello stato nell’Europa moderna e contemporanea e delle riforme istituzionali dell’Italia pre e post unitaria. Tra il 1971 e il 1976 si trasferì a Sassari per insegnare Scienze politiche e poi a Bologna, dove ottenne la cattedra di storia contemporanea. A partire dagli anni Ottanta all’insegnamento e allo studio affiancò l’impegno politico: prima divenne consigliere del segretario della Democrazia Cristiana Ciriaco De Mita e poi nel 1983 accettò di candidarsi al Senato dove venne eletto.
De Mita era diventato segretario della Democrazia Cristiana nel maggio del 1982, in un periodo di lunga crisi del partito, aperta dalla morte di Aldo Moro che poi sarebbe terminata con la fine della Prima Repubblica. Alle elezioni del 1983 la DC subì un drastico calo dei consensi: De Mita cercò di abolire le correnti interne, fazioni organizzate che si scontravano e alleavano tra di loro per il controllo del partito, e di portare avanti grazie a una serie di esponenti della tradizione del cattolicesimo politico, compreso Ruffilli, il progetto di una grande riforma istituzionale promossa dalla Commissione Bozzi, un organismo bicamerale costituito nel 1983. Nell’aprile 1988 De Mita divenne presidente del Consiglio, ma quel periodo di grande successo politico durò molto poco. Il suo governo era instabile, sostenuto e formato da cinque partiti differenti (il cosiddetto “pentapartito”: democristiani, socialisti, repubblicani, socialdemocratici e liberali). E poi, pochi giorni dopo l’insediamento, Roberto Ruffilli fu ucciso.
Intorno alle ore 13 di sabato 16 aprile di quell’anno, Ruffilli stava rientrando nella sua casa di Forlì in Corso Diaz 116. Aveva partecipato a un convengo su Don Bosco. Due membri delle Brigate Rosse, Stefano Minguzzi e Franco Grilli – che appartenevano alla componente ancora attiva del “Partito Comunista Combattente” – gli suonarono alla porta vestiti da postini con la scusa di recapitargli un pacco: una volta entrati portarono Ruffilli in salotto, lo fecero inginocchiare accanto al divano e lo uccisero con tre colpi di pistola alla nuca.
Qualche mese prima, in gennaio, un altro esponente delle Brigate Rosse, Antonino Fosso detto “il Cobra”, era stato intercettato e arrestato (era armato e con falsi documenti) nel quartiere Ardeatino di Roma, dove vivevano sia De Mita che il capo della sua segreteria, Riccardo Misasi. Lo scopo esatto della presenza di Fosso in quella zona non fu mai chiarito, ma si ipotizzò che a dieci anni dal rapimento Moro, le BR volessero organizzare una nuova ed eclatante operazione. L’arresto di Fosso molto probabilmente ridimensionò l’obiettivo e l’azione si concentrò sui consiglieri di De Mita: Ruffilli gli era molto vicino e aveva avuto un ruolo di primo piano nella riorganizzazione delle istituzioni in corso in quel periodo con la Commissione Bozzi.
Il pomeriggio del 16 aprile, alle 16.45, la redazione bolognese della Repubblica ricevette una prima telefonata di rivendicazione: «Abbiamo giustiziato il senatore DC Roberto Ruffilli a Forlì. Attacco al cuore dello Stato. Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente».
Poi, il 21 aprile una nuova telefonata alla redazione romana di Repubblica permise di ritrovare nel cestino di un bar di via Torre Argentina, dove Ruffilli faceva spesso colazione, un volantino molto lungo che rivendicava l’uccisione e ne spiegava i motivi:
«Un nucleo armato della nostra Organizzazione ha giustiziato Roberto Ruffilli ideatore del progetto politico di riformulazione dei poteri e delle funzioni dello Stato nonché suo articolatore concreto. Chi era Roberto Ruffilli, non certo il “… mite uomo di pensiero e di studio…” che le veline dello Stato cercano di accreditare nel tentativo di sminuire la portata politica dell’attacco subito. Egli era invece uno dei migliori quadri politici della DC, uomo chiave del “rinnovamento”, vero e proprio cervello politico del progetto demitiano, progetto teso ad aprire una nuova fase “costituente”. Ruffilli era altresì l’uomo di punta che ha guidato in questi anni la strategia democristiana sapendo concretamente ricucire attraverso forzature e mediazioni, tutto l’arco delle forze politiche intorno a questo progetto, comprese le opposizioni istituzionali […]. Quindi un politico puro e perno centrale del progetto di riformulazione delle “regole del gioco” all’interno della più complessiva rifunzionalizzazione dei poteri e degli apparati dello Stato (…)»
Nel volantino si spiegava che «l’ossatura del progetto politico demitiano» era «imperniata sulla formazione di coalizioni che si possono alternare alla guida del governo dandogli un carattere di forte stabilità, una maggioranza forte ed un esecutivo stabile in grado di garantire da un lato risposte in tempo reale ai movimenti dell’economia, dall’altro decisioni consone all’instabilità del quadro politico internazionale». L’obiettivo era secondo le BR quello di una “democrazia governante” e puramente formale con lo scopo reale di «concentrare tutti i poteri nelle mani della ”maggioranza” di governo nel nome di un interesse generale del paese che nella realtà è solo l’interesse della frazione dominante della borghesia imperialista».
Le indagini sull’omicidio di Ruffilli furono piuttosto veloci, venne recuperato il finto pacco, il furgone usato dai finti postini e poi la macchina utilizzata per scappare da Forlì. Le impronte digitali e le testimonianze di molti cittadini che avevano assistito a movimenti sospetti nei giorni precedenti all’omicidio permisero di arrivare a Milano: il 18 giugno, le forze dell’ordine entrarono in un covo delle BR trovando moltissime prove legate all’attentato del 16 aprile. Le indagini si chiusero nell’ottobre del 1988, con 14 rinvii a giudizio. Il processo cominciò nell’aprile del 1990 e si concluse con 9 condanne all’ergastolo.