Quello di Viktor Orbán è veramente un miracolo economico?
Lo dicono i sostenitori del primo ministro ungherese, uno dei leader politici più odiati nella UE, ma non tutti sono d'accordo
Per l’Unione Europea il primo ministro ungherese Viktor Orbán è spesso fonte di imbarazzo. Da quando è entrato in carica, nel 2010, Orbán ha introdotto riforme restrittive della libertà di stampa, costruito muri per impedire il passaggio di migranti e promosso posizioni intransigenti contro i musulmani.
I suoi estimatori, sia in Ungheria che nelle istituzioni europee, sostengono invece che Orbán abbia avuto il grande merito di aver fatto uscire l’Ungheria dalla crisi economica in maniera più convincente di quanto sia successo in altri paesi. I principali indicatori economici sembrano dargli ragione: il debito pubblico ungherese è sceso a livelli pre-crisi e la disoccupazione è passata dall’11 al 3,8 per cento. Alcuni dati e pareri raccolti dal New York Times, però, mettono in dubbio che la ripresa sia così solida come Orbán e i suoi sostenitori vogliano far credere in vista delle elezioni politiche che si terranno l’8 aprile.
Alcuni indicatori economici poco tradizionali sono decisamente peggiorati. Durante il governo conservatore di Orbán, per esempio, l’Ungheria è diventato un paese decisamente più corrotto. Cinque tra gli amici più stretti dello stesso Orbán hanno ottenuto complessivamente il 5 per cento dei contratti statali per un totale di 2,5 miliardi di euro, mentre il governo ha perso parecchi punti nell’indicatore della Banca Mondiale che stima il livello di corruzione in ciascun paese del mondo. Dal 2010 ad oggi, inoltre, si calcola che 350mila giovani ungheresi siano emigrati all’estero in cerca di condizioni migliori per lavorare e vivere.
Circolano dei dubbi anche sulla reale incidenza dei programmi del governo di Orbán per diminuire la disoccupazione, citati spesso come uno dei suoi successi (il tasso di disoccupazione ungherese è paragonabile a quello di Regno Unito, Germania e Danimarca).
La principale misura per combattere la disoccupazione è stata la creazione di un programma statale per i lavoratori poco qualificati che ha interessato 165mila persone, l’1,7 per cento della popolazione. A queste persone, il governo passa uno stipendio mensile di circa 130 euro – la metà del salario minimo consentito – per svolgere dei lavoretti pubblici oppure curare i terreni di proprietà dello stato: vengono conteggiate come persone occupate, anche se a volte lavorano poche ore alla settimana.
Per molte delle persone coinvolte nel programma, i soldi dello stato servono fondamentalmente a sopravvivere, cioè a pagare l’affitto e comprarsi da mangiare. Ma il programma non prevede corsi di aggiornamento o lavori qualificanti. Chi aderisce ha quindi pochissime prospettive di trovare un lavoro migliore: rimane a carico dello stato e nel tempo potrebbe finire per alimentare la diseguaglianza economica fra chi ha un lavoro “vero” e chi è rimasto coinvolto nel programma. Già oggi, secondo dati di Eurostat citati da Reuters, l’Ungheria ha il PIL pro capite più basso fra i paesi del blocco orientale come Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia.
Molti dei dubbi che circolano sul programma statale contro la disoccupazione sono stati confermati dalla visita che il New York Times ha fatto a Siklósnagyfalu, una cittadina ungherese di 440 abitanti al confine con la Croazia. Il sindaco ha spiegato al Times che il programma statale assicura «la sopravvivenza» dei disoccupati, e che per questo la stragrande maggioranza dei suoi cittadini voterà il partito di Orbán alle imminenti elezioni. A nessuna delle persone coinvolte, però, verranno date opportunità nel lungo termine: «ci sono giorni in cui non facciamo niente», ha spiegato uno di loro al New York Times. E non sembra negli interessi di Orbán cambiare le cose.