Netanyahu l’ha scampata di nuovo
Ha alimentato le voci sulle elezioni anticipate in Israele, spaventando alleati ed elettori, per rafforzare la sua posizione, e poi ne è venuto fuori: ma quante volte ancora potrà farlo?
Per circa una settimana, in Israele, c’è stata la concreta possibilità che si tenessero delle elezioni anticipate in estate. Nessuno le aveva fissate ufficialmente ma alcuni politici le consideravano una certezza, tanto che quando il governo ha smentito tutto si è parlato di elezioni “cancellate”. La politica israeliana è fatta così: una settimana prima le elezioni sembrano certe, qualche giorno dopo non se ne fa niente, il mese prossimo chissà. C’entra sicuramente il sistema elettorale, un proporzionale puro, che consegna il potere di veto nelle mani dei piccoli partiti. Ultimamente però il principale motivo di instabilità sembra essere la sorte del primo ministro Benjamin Netanyahu.
Netanyahu, che governa con una coalizione conservatrice e nazionalista dal 2009, è uno di quei leader potenti e carismatici capaci di attirare su di sé un forte consenso personale ma anche moltissime critiche. Negli ultimi mesi è stato accusato fra le altre cose di avere aiutato amici facoltosi in cambio di regali, di aver chiesto a un popolare quotidiano israeliano una copertura a lui più favorevole, e di avere offerto dei favori al proprietario di un sito di news indipendente. Ora è in attesa di un’incriminazione formale per i primi due casi, ed è indagato nel terzo. Eppure, se si votasse domani, vincerebbe di nuovo le elezioni, con margini probabilmente superiori rispetto alle ultime legislative.
Netanyahu governa da tempo Israele in questo modo. Ogni volta che la situazione politica si fa delicata, per una legge o una posizione controversa, impone una scelta binaria ai suoi alleati e agli elettori: o me o gli altri. Sa bene che è una strategia vincente: i piccoli partiti possono uscire danneggiati da eventuali elezioni, e perdere il loro pezzetto di potere, mentre fra gli elettori esiste un blocco del 20-25 per cento che si fida completamente di Netanyahu, perché in fin dei conti l’economia va bene e la pace coi palestinesi non è più in cima alle priorità. È un consenso sufficiente per rimanere a capo della coalizione conservatrice, e quasi certamente per vincere le elezioni. Questa dinamica si è vista durante l’ultima crisi di governo, nata da una discussa legge che escluderebbe i figli degli ebrei ultraortodossi dal servizio di leva.
La legge era stata proposta dai partiti che rappresentano gli ebrei ultraortodossi e che appoggiano il governo Netanyahu. Un altro dei piccoli partiti che lo sostengono, e che rappresenta soprattutto gli immigrati di origine russa, si è opposto dicendosi contrario a un eccessivo trattamento di favore (il servizio di leva dura tre anni per gli uomini e due per le donne). Altri partiti della coalizione avevano lasciato libertà di voto ai propri parlamentari. Netanyahu aveva capito che vento tirava e pensava di ottenere due obiettivi con un’unica mossa: se avesse indetto e vinto le elezioni anticipate, avrebbe ottenuto una nuova legittimazione popolare e rafforzato la presa sugli alleati.
Per giorni ha alimentato le voci di nuove elezioni, spaventando gli alleati e radunando il consenso dei suoi elettori, tanto che dai primi di marzo il consenso del suo partito ha avuto un leggero aumento secondo i sondaggi. Il 13 marzo, a circa una settimana di distanza dall’inizio della crisi, Netanyahu si è detto disposto a negoziare un compromesso interno alla coalizione: la legge sulla leva per gli ultraortodossi sarebbe stata votata, ma in cambio l’esercito avrebbe studiato la questione e formulato una sua proposta alternativa. Durante i negoziati per il compromesso, Netanyahu ha ottenuto inoltre ulteriori rassicurazioni sulla fedeltà dei suoi alleati per arrivare fino al termine della legislatura, fissata per l’autunno del 2019. Crisi risolta, almeno fino alla prossima controversia.
Secondo molti osservatori Netanyahu non potrà usare questa strategia per sempre. Al momento sta approfittando della buona congiuntura dell’economia mondiale, delle scarse tensioni con i palestinesi e soprattutto della debolezza dei suoi avversari politici (la principale coalizione progressista è data sotto al 10 per cento). Cosa potrebbe succedere?
Qualcuno dei suoi sostenitori potrebbe stufarsi. È vero che Netanyahu ha un blocco di sostenitori molto fedeli, ma al contempo è bloccato in una specie di trappola. Conserva ancora il consenso necessario per rimanere al governo senza eccessive pressioni, ma non ne ha a sufficienza per opporsi alle leggi sempre più radicali proposte dai suoi alleati, né per proporre progetti ambiziosi come la ripresa dei negoziati di pace o la riforma del lavoro per provare a ridurre le diseguaglianze, sempre più evidenti nella società israeliana.
Oppure qualcuno dei suoi guai giudiziari potrebbe peggiorare e avere delle conseguenze concrete. Per la legge israeliana l’unica persona che può incriminare il primo ministro è il procuratore generale dello stato. Al momento la carica è ricoperta da Avichai Mandelblit, un rispettato giurista che per molti anni è stato il magistrato più alto in grado dell’esercito israeliano. Nelle scorse settimane la polizia gli ha raccomandato di incriminare Netanyahu per i primi casi in cui è rimasto coinvolto, ma ci metterà comunque parecchio tempo per decidere cosa fare. Nei rari precedenti messi insieme da Haaretz, il procuratore generale ha impiegato diversi mesi per decidere se rinviare a giudizio oppure far cadere le accuse. E anche se Mendelblit decidesse per l’incriminazione, la rimozione di Netanyahu sarebbe ancora lontana per via delle molte garanzie che la legge israeliana prevede per il primo ministro.
Al momento l’ipotesi più probabile è che Netanyahu arrivi a fine mandato. Fra un anno, poi, si capirà meglio la solidità dei casi giudiziari in cui è coinvolto, e anche se le opposizioni saranno in grado di organizzarsi con maggiore efficacia nel tentativo di batterlo.