Damon Albarn compie 50 anni
Le sue tredici canzoni migliori, scelte tra quelle dei Blur, dei Gorillaz e dal disco che ha fatto da solo
Oggi compie cinquant’anni Damon Albarn, cantante, compositore, produttore musicale, icona – se ce ne sono – del britpop, frontman dei Blur, quello con la perenne faccia-da-ragazzino. Con i Blur ha fatto le cose più ricordate, ma poi ci sono stati i Gorillaz, e il disco da solo (ma ce ne sono altri, in varie forme).
Con questa selezione fatta da Luca Sofri, peraltro direttore del Post, potete ripassare. È tratta – con qualche aggiornamento – dal suo libro Playlist, la musica è cambiata, in cui dei Blur si diceva:
Band di culto, band rivoluzionaria, band di grande fantasia, band di popolarità mondiale, band di continui tentativi di svolta. Sono stati una delle cose più importanti della musica pop degli anni Novanta, soprattutto in Gran Bretagna. Poi una delle due teste, il chitarrista Graham Coxon, decise di lasciare; e l’altra testa, il cantante Damon Albarn, ci rimase male e ripeté assai che senza Coxon non sarebbe più la stessa cosa. Si è inventato altro, dalle raccolte di musica terzomondista al successone dei Gorillaz, poi nel 2015 Coxon è tornato e hanno fatto un nuovo disco, un po’ fuori tempo.
Sing
(Leisure, 1991)
Canzone dalla storia agitata. Fu ripescata dal periodo pre-Blur della band, messa dentro al primo disco dei Blur – ignorato fuori dalla Gran Bretagna – e uscì come b-side del primo singolo. E quando ripubblicarono l’LP negli Stati Uniti, la tolsero. Poi ricomparve nella colonna sonora di Trainspotting. Se lo meritava, perché benché non succeda praticamente niente per cinque minuti scanditi da un pianoforte incessante e tramviario, ha un feeling particolare e arioso, ottima scelta per una colonna sonora.
Sunday sunday
(Modern life is rubbish, 1993)
Fu il terzo singolo da Modern life is rubbish, quello che andò meglio. C’era già tutto quello che i Blur avrebbero fatto poi, dal suono britpop alle indulgenze più rock, ai temi della deprimente quotidianità britannica. Una domenica bestiale.
Girls and boys
(Girls and boys, 1994)
Gli inglesi chiamano “eurotrash” quel pop da classifica di solito proveniente dai paesi del Nordeuropa, spesso per opera di bands che poi spariscono nell’oblio, molta elettronica e una melodietta che funziona coi ragazzini: tipo “Barbie girl” degli Aqua, per capirsi. Questa canzone fu l’imitazione e la parodia dell’eurotrash e al tempo stesso la presa in giro del nascente cazzeggio degli anni Novanta e della gioventù squinternata ed eccitata che li frequentò. L’ironia fu ignorata da quella stessa gioventù e dalle classifiche di mezzo mondo: la canzone aprì la strada a un’ennesima era di britpop di grande successo internazionale.
Trouble in the message centre
(Parklife, 1994)
Ritmone. Ritornello abbastanza inutile, ma strofa tiratissima: sapete schioccare le dita?
Country house
(A knees-up at mile end, 1995)
La resa dei conti con i rivali Oasis arrivò quando Damon Albarn decise di fare uscire il nuovo singolo dal nuovo cd la stessa settimana del nuovo singolo dal nuovo cd degli altri, “Roll with it”. Gli Oasis poi sostennero che del loro non erano state stampate abbastanza copie, ma insomma: al numero uno andò “Country house”. Non durò a lungo: quando dal disco degli Oasis uscì fuori “Wonderwall”, chiuse la partita delle vendite.
The universal
(The great escape, 1995)
La più bella canzone dei Blur, per come si inventa l’andamento lento della strofa e il refrain liberatorio, illusorio e “anthemico”, come dicono gli inglesi: e per come li mette assieme.
Entertain me
(The great escape, 1995)
In realtà è la stessa canzone di “Girls and boys”, suo sequel.
You’re so great
(Blur, 1997)
Suona un po’ strana, per una canzone dei Blur: e in effetti la suona e la canta Graham Coxon tutto da solo, in un disco già molto più rock e “americano” rispetto ai precedenti, proprio su insistenza dello stesso Coxon. Ma nella sua anomalia, “You’re so great” aggiunge l’esemplare “canzone struggente” al repertorio altrimenti sempre un po’ freddino-pop dei Blur.
Strange news from another star
(Blur, 1997)
Benché citi il titolo di un racconto di Hermann Hesse del 1915, è impossibile non legare il riferimento astronomico al suono bowiesco della canzone.
Coffee & TV
(13, 1999)
Uno sguardo indietro al suono e ai coretti di qualche disco prima, ottimo pop prodotto da William Orbit. Il video, per chi se lo ricorda, era quello del cartone di latte che va alla ricerca di Graham Coxon.
Out of time
(Think tank, 2003)
Primo singolo da quel disco, canzone psichedelico-sognante, con testo coerente – “Feel the sunshine on your face” – anche se virato alle preoccupazioni del millennio presente e del mondo che gira mollemente fuori sincrono, e quella sunshine la teme un po’ perduta, dentro lo schermo di un computer. Bella canzone per ottundersi, o per restare ottusi.
Melancholy Hill
(Plastic Beach, 2010)
I Gorillaz sono uno strano progetto musicale-artistico inventato da Albarn nel 1998, con notevoli successi commerciali e qualità alterne. Hanno fatto cinque dischi e nel quarto c’era questa canzonetta melanconica nel titolo ma allegrissima nell’andamento: forse l’unica canzone della storia del pop a citare un lamantino nel testo. C’è Paul Simonon dei Clash che ci suona il basso.
Well you can’t get what you want
But you can get me
So let’s set out to sea
‘Cause you are my medicine
When you’re close to me
When you’re close to me
Heavy seas of love
(Everyday Robots, 2014)
Il disco successivo i Blur lo fecero nel 2015, e non fu un gran ritorno. Nel frattempo Damon Albarn aveva fatto un po’ di cose, tra cui un suo disco decisamente migliore, nel 2014. La canzone che lo chiudeva aveva dentro Brian Eno a cantare e suonare e un andamento gospel molto bello, in un’inversione ottimista rispetto a “Out of time”: pesanti ondate d’amore.