I reperti archeologici rubati durante l’invasione dell’Iraq sono in vendita per pochi soldi
Secondo l'Atlantic è un mercato in piena espansione e difficile da fermare: il patrimonio culturale del paese è stato compromesso e c'entrano i saccheggi ma anche gli Stati Uniti
Il 20 marzo di quindici anni fa i soldati statunitensi invasero l’Iraq per destituire l’allora presidente iracheno Saddam Hussein e instaurare a Baghdad un regime amico, che fosse alleato degli Stati Uniti. Dal punto di vista militare e nel breve periodo, quell’operazione fu un successo: nel giro di poche settimane Hussein fu deposto e le principali città irachene finirono sotto il controllo delle forze della coalizione guidata dagli Stati Uniti. Nel caos che seguì l’invasione, però, il Museo Nazionale di Baghdad fu saccheggiato.
Dal museo furono rubati circa 15 mila reperti: di questi, circa 7 mila sono stati recuperati e restituiti, ma 8 mila ancora non si sa dove siano. I numeri si riferiscono solo ai beni catalogati e sottratti dal museo, mentre la portata reale del saccheggio resta tutt’ora sconosciuta: dopo l’invasione, infatti, migliaia di altri reperti furono prelevati direttamente dai siti archeologici e i siti stessi vennero irrimediabilmente danneggiati. L’Atlantic, per l’anniversario dell’invasione, ha scritto un lungo articolo in cui sostiene come sia incredibilmente facile acquistare i tesori archeologici dell’Iraq per poche decine di dollari, online.
Il saccheggio del museo (che ha riaperto nel 2008) avvenne nell’aprile del 2003 e causò, già allora, diverse proteste internazionali poiché gli americani non erano riusciti a proteggere l’edificio, che era uno dei più importanti del Medio Oriente e che era stato aperto negli anni Venti grazie alla studiosa inglese Gertrude Bell. In quei giorni, il personale abbandonò l’edificio per paura dei bombardamenti e il museo venne saccheggiato. Quando i soldati ricevettero l’ordine di proteggerlo, decine di migliaia di reperti erano già stati rubati.
Uno dei pezzi più preziosi che vennero sottratti al museo fu la Dama di Warka, conosciuta anche come la Gioconda della Mesopotamia o Maschera di Uruk. È un manufatto sumero risalente al 3100 a.C. e viene considerato la prima rappresentazione conosciuta del volto umano: fu trovato a Warka (Uruk) durante gli scavi del 1938, è in pietra bianca e a grandezza quasi naturale. Poco dopo il saccheggio, la soffiata di un informatore iracheno portò gli investigatori a fare irruzione in una fattoria dove il reperto venne ritrovato. Nel settembre del 2003 la maschera è stata restituita, ma è stato anche uno dei casi più fortunati.
L’Atlantic ha scritto che una serie di esperti dopo l’invasione dell’Iraq ha notato un aumento della disponibilità sui mercati occidentali online di antichi manufatti mesopotamici ed è molto probabile che una parte di questi reperti sia in realtà stata rubata. Sebbene la convenzione del 1970 dell’UNESCO preveda dei certificati per l’esportazione e il divieto di importazione di beni rubati da musei o istituzioni, i siti di vendita all’asta, in genere, non richiedono ai venditori di produrre questa certificazione.
Sul sito Live Auctioneers si possono trovare per esempio un toro di pietra per 50 dollari, un sigillo cilindrico per 150 dollari, un frammento di terracotta con un dio su un carro per 225 dollari e molto altro ancora. Su un altro sito, Trocadero, si può comprare un amuleto in pietra per 250 dollari. Il punto, spiega l’Atlantic, non è che questi artefatti siano stati saccheggiati dopo l’invasione degli Stati Uniti, ma che gli antichi oggetti mesopotamici siano così facili da acquistare online. Ed è estremamente difficile sapere se la provenienza indicata sia vera e dunque legale. Entrambi questi siti web, nelle loro condizioni d’uso, vietano agli utenti di pubblicare informazioni false, ma nessuno dei due ha risposto alle richieste di chiarimenti su come questa politica venga effettivamente applicata. Live Auctioneers richiede di rispettare la legge, ma specifica anche che il sito non ha alcun controllo sulla qualità, la sicurezza o la legalità degli articoli pubblicizzati. Di conseguenza non può garantire «la veridicità o l’accuratezza delle inserzioni».
Oya Topçuoğlu, docente alla Northwestern University, Illinois, specializzata in archeologia mesopotamica, ha spiegato che la provenienza dei reperti è facilissima da falsificare. «Puoi dire “mio nonno ha comprato questo quando ha visitato il Medio Oriente nel 1928 e da allora è rimasto nella nostra soffitta”», per esempio. E ha anche spiegato che è molto difficile dimostrare che un certo oggetto sia stato rubato dal Museo Nazionale dell’Iraq. Per vari motivi: innanzitutto molti degli oggetti rubati dal magazzino del museo non erano ancora stati classificati e numerati. E poi nel cercare di fare dei controlli sull’oggetto ci si deve limitare alla fotografia pubblicata sul sito: «Non hai la possibilità di girarlo e guardarlo da ogni angolatura possibile».
L’archeologo iracheno Abdulameer Al-Hamdani ha poi raccontato che il prezzo dovrebbe far insospettire: i reperti adeguatamente documentati tendono ad avere prezzi ben superiori. Questo non significa che i più economici siano contraffatti, tendono anzi a essere autentici, ma costano poco «perché la gente vuole liberarsene». Forse perché non hanno un’adeguata documentazione di accompagnamento.
La maggior parte delle antichità irachene vendute online è di piccole dimensioni. I grandi oggetti rubati dal museo nel 2003 sono stati quasi tutti restituiti. Molti iracheni che hanno saccheggiato questi oggetti si sono resi subito conto che non potevano venderli perché erano troppo riconoscibili, e hanno approfittato dell’amnistia offerta dal museo a chiunque restituisse beni rubati per riconsegnarli. Altri oggetti sono stati poi ritrovati durante le ricerche o sono stati intercettati alla dogana mentre i contrabbandieri cercavano di esportarli.
Gli Stati Uniti hanno contribuito al recupero e al rimpatrio di alcuni di questi manufatti, come la statua in pietra del re sumero Entemena di Lagash (che è tornata in Iraq nel 2010) o come la testa del re assiro Sargon II che è stata sequestrata a New York nel 2008 e restituita all’Iraq nel 2015 (come Londra, precisa l’Atlantic, New York è un importante centro per il mercato delle antichità, date le numerose gallerie e case d’asta della città).
Gli Stati Uniti hanno dunque lavorato attivamente al rimpatrio dei reperti (1.200 pezzi solo tra il 2008 e il 2015) ma non hanno indagato a fondo e in modo indipendente per individuare le responsabilità della negligenza connessa al saccheggio del museo. Inoltre, come riportato dal Chicago Tribune nel 2015, alcuni militari americani e altri che erano stati trovati in possesso di manufatti significativi che si erano portati a casa dalla guerra non sono stati perseguiti. «Non si sa quanti americani abbiano portato a casa manufatti come souvenir o trofei di guerra, ma un esperto ha raccontato al Tribune alcuni casi noti».
L’invasione non ha avuto conseguenze solo sugli oggetti, ma ha anche danneggiato i siti archeologici più importanti del paese e soprattutto al sud: a Isin, Tell Jokha (l’antica Umma), e a Bismaya (l’antica Adab). Elisabeth Stone, archeologa e docente della Stony Brook University dello Stato di New York, ha monitorato le immagini prese dal satellite dei siti alla ricerca di prove di scavi clandestini comparandole con quelle prima dell’invasione: dei 1.457 siti del sud esaminati, il 13 per cento era già stato saccheggiato prima dell’invasione, ma la percentuale è salita al 41 per cento a partire dal febbraio del 2003. Il saccheggio era stato chiaramente accelerato dall’invasione.
La guerra aveva poi costretto molti archeologi a smettere di lavorare nei loro siti. Disperati e senza lavoro, questi professionisti locali avevano cominciato a guadagnarsi una rendita nell’unico modo che conoscevano: scavando e vendendo i reperti, approfittando della notizia di una falsa fatwa religiosa che stabiliva come fosse lecito rubare e vendere le antichità non islamiche. Per combattere la fatwa immaginaria e vietare il saccheggio dei siti archeologici, ne fu necessaria una vera.
Saccheggi a parte, alcuni dei manufatti iracheni rimasti nel paese sono stati gravemente danneggiati dall’invasione degli Stati Uniti, come la celebre Porta di Ishtar dei Babilonesi. Nel 2003, le forze degli Stati Uniti stabilirono un campo militare proprio in quel sito archeologico coprendone gran parte con la ghiaia per fare piste di atterraggio per elicotteri, parcheggi o servizi igienici.