L’uomo dietro al riavvicinamento tra Stati Uniti e Corea del Nord
È il presidente sudcoreano Moon Jae-in, che ha fatto qualcosa di sorprendente e inaspettato, almeno fino a qualche settimana fa
A settembre dello scorso anno il presidente americano Donald Trump parlò per la prima volta di fronte all’Assemblea generale dell’ONU, facendo un discorso che molti si ricordano ancora. Definì “Rocketman”, l’uomo dei missili, il dittatore Kim Jong-un e minacciò di distruggere «completamente» la Corea del Nord se il regime nordcoreano non avesse cambiato atteggiamento. Fu uno dei momenti di maggiore tensione tra Stati Uniti e Corea del Nord, ma non l’unico: ne vennero molti altri e per mesi governi, giornalisti e analisti parlarono del rischio di una nuova guerra che avrebbe potuto coinvolgere gli alleati degli americani in Asia, tra cui Corea del Sud e Giappone.
Poi, improvvisamente, qualcosa è cambiato. Quel qualcosa, sostengono oggi molti esperti, si chiama Moon Jae-in, il presidente della Corea del Sud che per mesi è stato sottovalutato e ritenuto troppo debole e ingenuo per gestire un problema così grosso.
Nel giro di poche settimane – pochissime, se si considera il pessimo stato delle relazioni tra Corea del Nord e Stati Uniti – sono stati fatti progressi insperati e inaspettati. Ci sono state le prime aperture con il discorso di Capodanno di Kim Jong-un, la partecipazione della Corea del Nord alle Olimpiadi invernali al Sud, i primi incontri di alto livello tra rappresentanti dei due paesi e le voci sulla disponibilità nordcoreana ad avviare negoziati per abbandonare il suo programma nucleare militare. Tutte cose difficilmente immaginabili fino a qualche mese fa e tutte cose volute e pianificate dal presidente Moon. Giovedì scorso è arrivato l’ultimo importante e sorprendente annuncio. Chung Eui Yong, consigliere per la sicurezza nazionale del capo dei servizi segreti sudcoreani, ha detto che Donald Trump e Kim Jong-un avevano accettato di incontrarsi faccia a faccia entro un paio di mesi, in un luogo ancora da stabilire. Se dovesse effettivamente tenersi, sarebbe un incontro storico.
È raro vedere le cose cambiare così in fretta in politica internazionale e non è nemmeno detto che la Corea del Nord sia davvero disposta a negoziare sull’abbandono del suo programma nucleare, come sostengono molti scettici. Ci sono parecchie ragioni per pensare a un fallimento dei negoziati: per esempio il fatto che le due parti sembrano essere completamente impreparate all’incontro, visto che finora non c’è stata alcuna riunione tra funzionari di livello più basso, una pratica considerata necessaria in qualsiasi negoziazione di questo tipo e di questa importanza. L’amministrazione Trump non sembra nemmeno avere personale qualificato per gestire i colloqui, senza contare che gli Stati Uniti non hanno ancora nominato il nuovo ambasciatore in Corea del Sud o un diplomatico esperto incaricato di seguire quella parte di Asia per il dipartimento di Stato. C’è però una cosa che frena gli scetticismi: la straordinaria capacità diplomatica mostrata finora da Moon Jae-in nel gestire l’inimicizia tra Stati Uniti e Corea del Nord.
Quando Moon fu eletto presidente della Corea del Sud lo scorso anno, e disse di voler mettere il governo di Seul «al posto di guida della penisola coreana», arrivarono le prime critiche. Come ha scritto il giornalista Nathan Park sull’Atlantic, «l’idea che la Corea del Sud, e non gli Stati Uniti o la Cina, volesse gestire il preoccupante problema del nucleare nordcoreano sembrò assurda. Gli avversari politici di Moon lo derisero; l’opposizione disse che Moon “non era seduto nemmeno nel posto del passeggero”» e gli Stati Uniti cominciarono a guardarlo con diffidenza. Una parte del Partito Repubblicano americano vedeva infatti gli inviti al dialogo di Moon come una politica di appeasement (riappacificazione, accordo) che avrebbe portato solamente al rafforzamento del regime della Corea del Nord.
Per settimane analisti di tutto il mondo parlarono del rischio concreto che Moon si trasformasse in una specie di burattino nelle mani di Kim Jong-un, che venisse cioè manipolato dal regime nordcoreano a suo vantaggio: se la Corea del Sud avesse accettato di parlare con quella del Nord ignorando i moniti statunitensi, forse l’alleanza tra americani e sudcoreani si sarebbe indebolita e il regime nordcoreano avrebbe potuto affrontare un nemico più diviso e meno forte. L’ipotesi che i tentativi di Moon potessero andare a buon fine era considerata per lo più ingenua. Eppure Moon non era l’ultimo arrivato. Era stato il capo dello staff del presidente sudcoreano Roh Moo-hyun, dal 2003 al 2008, e uno dei promotori della cosiddetta “Sunshine Policy”, cioè quella politica finalizzata a mantenere vicina la Corea del Nord con il dialogo, gli aiuti umanitari e i progetti economici congiunti: una politica che fu di fatto sospesa con i due successivi presidenti sudcoreani, entrambi appartenenti al partito conservatore.
Negli ultimi mesi Moon è riuscito a gestire una situazione di tensione che sembrava destinata a non risolversi e che aveva avuto uno dei suoi momenti più intensi con il discorso di Trump all’Assemblea generale dell’ONU. Moon non ha mai fatto dichiarazioni sopra le righe ed è sempre stato attento a non inimicarsi né Trump, al quale ha riservato più volte pubblici complimenti, né i Repubblicani americani, che ha rassicurato garantendo che non avrebbe sostenuto l’eliminazione delle sanzioni imposte alla Corea del Nord. Allo stesso tempo ha sempre invitato il governo nordcoreano a iniziare un dialogo che riducesse il rischio dell’inizio di una nuova guerra. Come ha detto lo stesso Moon qualche giorno fa, «è troppo presto per essere ottimisti», anche perché il regime nordcoreano potrebbe cambiare idea all’ultimo momento, come già successo diverse volte in passato. Se andrà bene, comunque, buona parte del merito sarà senza dubbio di Moon.