Dovremmo dare il diritto di voto ai sedicenni?
Secondo un ricercatore danese otterremmo dei benefici dimostrabili, sia sul piano dell'affluenza che del senso civico
Dopo la recente strage nel liceo di Parkland, in Florida, è successa una cosa diversa dal solito. Molti degli studenti sopravvissuti hanno parlato pubblicamente della loro esperienza, e con toni così profondi e consapevoli da rianimare il dibattito sulle armi negli Stati Uniti. Qualcuno ha notato un po’ amaramente che nonostante siano riusciti ad influenzare la conversazione nazionale, è difficile che potranno cambiare concretamente le cose. Sono quasi tutti minorenni – la high school americana si frequenta dai 14 ai 18 anni – e come tali non hanno ancora diritto di voto: non possono cioè votare per i politici che chiedono maggiori controlli sulle armi, né convincere i loro coetanei a fare altrettanto.
Si è quindi riaperto un dibattito che torna ciclicamente sulle pagine dei giornali e delle riviste di scienze politiche: perché nella maggior parte dei paesi al mondo si ottiene il diritto di voto una volta compiuti 18 anni? Ha senso introdurre un limite più basso, magari di 16 anni?
La risposta è sì, almeno dal punto di vista neurologico. Mentre nella maggior parte delle persone l’autodisciplina nelle situazioni di pericolo o pressione si stabilizza intorno ai ventidue anni – è il motivo per cui negli Stati Uniti l’età minima per acquistare alcolici è 21 anni, per dire – i processi logici che conducono alla formazione di un giudizio indipendente sono già compiuti intorno ai 16 anni. Diversi studi vanno in questa direzione, anche se alcuni citano uno studio norvegese del 2011 secondo cui i 16enni sono comunque meno maturi dei 18enni, per via di alcuni processi di crescita che si stabilizzano nei due anni di differenza.
Dal punto di vista legale ci sono ancora meno dubbi. Il voto ai 16enni esiste già in diversi paesi sviluppati, fra cui la Scozia e il Brasile, e in Italia è stato introdotto formalmente nelle primarie nazionali del Partito Democratico, senza alcuna conseguenza negativa. In passato, inoltre, l’età minima per votare è già stata abbassata per adeguarla ai cambiamenti della società. Negli Stati Uniti, ad esempio, l’età minima per votare fu diminuita da 21 a 18 nel 1971 dietro la pressione dei gruppi studenteschi, che chiedevano di equipararla a quella per essere arruolati nell’esercito (e di conseguenza mandati a combattere in Vietnam).
Ci sono poi almeno due fattori positivi nell’abbassare il limite a 16 anni: il ricercatore danese Jens Olav Dahlgaard ne ha scritto di recente sul Washington Post, sintetizzando uno studio che ha pubblicato sull’American Political Science Review.
Grazie all’ampio database che il governo danese raccoglie sui propri cittadini, Dahlgaard ha analizzato quattro elezioni fra il 2009 e il 2015 e scoperto che in media la partecipazione al voto dei genitori che hanno una figlia o un figlio che compie 18 anni poco prima della data delle elezioni aumenta del 2,7 per cento. Molto probabilmente perché vogliono dare il buon esempio, accompagnando il figlio o la figlia al seggio. In generale, si può sostenere che i genitori dei neo-diciottenni siano più invogliati degli altri ad andare a votare.
Il problema è che in Danimarca, come in molti altri paesi, i figli escono di casa molto presto, spesso alla fine del liceo: se un ragazzo ottiene il diritto di voto a 18 anni e la prima elezione a cui può votare si tiene quando ne ha quasi venti, per esempio, l’effetto benefico sui genitori svanisce. Lo studio di Dahlgaard ha dimostrato che l’aumento di affluenza si verifica solo nel caso in cui i figli vivano ancora coi genitori. Abbassare l’età per votare a 16 anni, almeno in Danimarca, aumenterebbe l’affluenza generale, dato che a quell’età la maggior parte dei figli vive ancora coi propri genitori.
Votare è considerata un’abitudine: prima si inizia, e più è naturale continuare a farlo anche da adulti. Viceversa, è già stato dimostrato che i ragazzi che escono di casa molto presto sono portati a smettere di votare per molti anni. Per le stesse ragioni di prima, quindi, almeno in Danimarca se un ragazzo inizia votare quando ancora abita coi genitori svilupperà un’abitudine che manterrà anche negli anni successivi.