Assassini involontari
Come cambiano le vite dei macchinisti dopo che qualcuno si butta sotto il loro treno per uccidersi
Ogni anno in Germania 800 persone si suicidano gettandosi sui binari contro un treno in corsa, e «trasformando i macchinisti in assassini involontari»; con numeri diversi, lo stesso capita di tanto in tanto in tutte le città del mondo attraversate da una ferrovia. Il settimanale tedesco Der Spiegel ha pubblicato un bell’articolo che racconta la storia di uno di questi «assassini involontari», per raccontare cosa succede dopo alle loro vite.
Stephan Kniest è un macchinista tedesco che ha vissuto questo trauma quattro volte. Il giornalista Hauke Goos l’ha incontrato a Rotterdam, che è circa a 200 chilometri da Weeze, la città dove vive Kniest e che si trova nell’estremo ovest della Germania. La diga, con il gigantesco porto di Rotterdam alle spalle, è il luogo in cui Kniest riesce a liberarsi dal peso dei ricordi che lo hanno condizionato e che lui chiama “eventi”.
Il primo “evento” avvenne su un rettilineo che attraversava un’area boscosa. Una giovane donna si mise lungo i binari. Kniest guidava un treno locale alla velocità di 120 chilometri orari: era quasi sera e lei «sembrava un sacchetto della spazzatura». Kniest tirò immediatamente i freni. La locomotiva pesava circa 80 tonnellate. Quando si viaggia a una velocità di 120 chilometri all’ora sono necessari circa 600 metri per fermare il treno, cioè 18 secondi. Durante il periodo di formazione, ai macchinisti viene insegnato a distogliere lo sguardo e coprirsi le orecchie, in casi del genere in cui l’impatto è inevitabile. «Ma non funziona. È impossibile, non hai tempo per distogliere lo sguardo». Tutto quello a cui Kniest riuscì a pensare in quei secondi furono questioni operative: gli vennero in mente tutti i singoli passaggi di un capitolo del manuale di addestramento ferroviario intitolato “Come comportarsi in caso di pericolo”. Poi arrivò il suono della collisione, un tonfo sordo. Kniest non vide nessun volto. E non ricorda se la donna fosse sdraiata sulla pancia o sulla schiena.
Più tardi, Stephan Kniest si ritrovò seduto su un taxi che lo stava portando verso casa. Aveva 21 anni e faceva il macchinista solo da alcune settimane. Da bambino era appassionato di treni e a 12 anni sapeva già che cosa sarebbe diventato da grande: un macchinista della compagnia ferroviaria tedesca Deutsche Bahn. Prima che i potenziali macchinisti possano iniziare la formazione, devono sottoporsi a dei test. Un macchinista deve essere in grado di concentrarsi, di lavorare sotto pressione e di resistere allo stress.
Qualche numero, allora. Ottocento suicidi ferroviari all’anno, in Germania, significa più di due persone al giorno: significa che ogni macchinista può trovare una persona lungo i binari una o due volte nel corso della sua vita lavorativa. Un treno merci viaggia a 100 chilometri all’ora, un treno locale a 160 e i treni a lunga percorrenza possono raggiungere i 300 chilometri orari: possono volerci più di tre chilometri per riuscire a fermarli.
Quattro settimane dopo il primo “evento”, Kniest tornò al lavoro. Se avesse detto che l’incidente gli creava pensieri e preoccupazioni, gli sarebbe stato dato un appuntamento con uno psicologo: e lui non voleva. Si sentiva bene ed era sicuro che tutto sarebbe tornato alla normalità. Il secondo “evento” avvenne esattamente un anno dopo il primo. Questa volta un uomo saltò davanti al suo treno e Kniest lo vide solo all’ultimo momento, neanche il tempo di rallentare. Ancora una volta si ritrovò su un taxi che lo riportava verso casa, di nuovo entrò in congedo per malattia, per quattro settimane, e di nuovo alla fine pensò di essere abbastanza forte per tornare al lavoro: «Non pensavo che l’incidente mi avesse colpito».
Der Spiegel dice che quasi ogni macchinista, negli anni, impara a distinguere i suoni della morte. Più alto è l’impatto, più forte è il suono e una persona sdraiata sui binari fa un suono diverso rispetto a una persona che sta in piedi. Il secondo “evento” trasformò Kniest in una specie di esperto, scrive lo Spiegel: “Invece di guidare semplicemente il treno dal punto A al punto B, iniziò a capire e a riconoscere le occasioni che avevano le persone che volevano suicidarsi sui binari”. In poco tempo imparò a individuare i luoghi dei possibili attraversamenti, i posti dove c’erano delle cabine dietro cui nascondersi o in cui c’era un ospedale psichiatrico nelle vicinanze, a sapere esattamente quanto la distanza di frenata di un treno fosse influenzata dal gelo sui binari e quanto i fari della locomotiva non fossero di aiuto: «Sono così deboli che i macchinisti li chiamano “lumini da tè”».
Il terzo “evento” risale alla fine del 2006. Kniest non ricorda più se la vittima fosse sdraiata o in piedi, e ha dimenticato il suono dell’impatto. Non ha mai voluto sapere niente di quelle persone perché non sapere “in qualche modo lo protegge”. Verso casa, in taxi, si chiese: «Perché ancora io?». Con questo terzo incidente Stephan Kniest era oramai al di sopra della media statistica, e aveva solo 24 anni.
Anche questa volta Kniest non richiese un aiuto professionale. In Germania, a nord di Lubecca, c’è una clinica che vent’anni fa si è specializzata nel trattamento dei macchinisti traumatizzati: «Una persona che cerca la morte sui binari non distrugge solo la propria vita, ma interrompe anche la vita di qualcun altro. Trasforma il macchinista in un responsabile, in qualcuno che si trova costretto a uccidere. Trasforma i macchinisti in assassini che non sono colpevoli delle loro azioni», ha spiegato Bruno Kall, un medico della clinica. La clinica è convenzionata al fondo di assicurazione malattia di Deutsche Bahn.
Al suo terzo “evento”, Kniest aveva cominciato a soffrire di disturbo post traumatico da stress; nell’esperienza di Kall, colpisce circa il 15 per cento dei macchinisti che hanno investito una persona. Questo pone i conducenti di treni nella stessa categoria di rischio dei vigili del fuoco, dei paramedici o degli agenti di polizia.
Stephan Kniest cercò di elaborare i traumi che aveva vissuto fotografando le navi mercantili sulla diga di Rotterdam, scrive lo Spiegel:
Le foto delle navi diventavano più importanti ad ogni “evento”. Sta in riva al mare a Rotterdam tutte le volte che può. Scatta foto, fino a 1.500 al giorno, e quando torna a casa, le esamina, le modifica, le etichetta e le archivia. Come se stesse cercando di combattere le immagini nella sua testa con le foto che fa.
Kniest crea due backup di ogni immagine:
“La sua più grande paura è che un errore o un problema tecnico possano cancellare tutto. Le foto che ha scattato finora occupano nove terabyte di memoria sui suoi dischi rigidi, ma può ancora ricordare quasi ogni nave, il tempo, il giorno, la luce, le circostanze”.
Per otto anni la sua vita proseguì in questo modo, anche se i suoi amici cominciarono a notare un cambiamento in lui, una chiusura, una solitudine sempre più ricercata.
Poi arrivò il 23 gennaio 2015, un venerdì. Un uomo scelse di uccidersi con l’aiuto del treno di Kniest. Per lui era il quarto “evento” e fu completamente diverso dagli altri: l’uomo stava camminando sui binari incontro al treno. Lo vide chiaramente. Un macchinista deve eseguire tre azioni per fermare il treno il più rapidamente possibile: deve spostare la leva del freno in posizione di emergenza, deve attivare un segnale con un pedale e deve premere un pulsante che mette in azione la sabbiera, un dispositivo che fa cadere della sabbia sul binario al di sotto delle ruote motrici per creare maggiore aderenza. Nonostante queste tre mosse, quando il treno si ferma, è quasi sempre troppo tardi. Kniest fu messo di nuovo in congedo per malattia, ma questa volta non riuscì a tornare al lavoro: “Le immagini nella sua testa erano troppo potenti”, dice lo Spiegel, non riusciva a dormire la notte e non usciva quasi mai durante il giorno.
Nel maggio del 2015, e per la prima volta, Kniest prese un appuntamento con il dottor Kall alla clinica Buchenholm. Qui imparò a rivivere gli “eventi” e a raccontarli, imparò a controllare i pensieri e le convinzioni negative, a identificare gli errori logici contenuti nelle sue convinzioni e a rielaborarli. A imparare che il macchinista non è l’autore ma la vittima. Lui era alla guida della locomotiva, ma non ha ucciso nessuno: «Le persone che si sono suicidate lo hanno fatto da sole, per loro volontà. La rabbia verso la persona che ti ha messo in questa posizione», ha spiegato il dottor Kall, «è spesso un sentimento positivo». Kniest tornò a casa dopo nove settimane. Si sentiva meglio ma non ancora completamente guarito. Non riusciva a dormire la notte e arrivò a pensare di suicidarsi. Nel 2016 tornò a Malente per un secondo ciclo di terapia, che questa volta durò 12 settimane. Poi riuscì a tornare al lavoro.
Ora, spiega Der Spiegel, i suoi turni sono molto più faticosi di quanto non lo fossero un tempo: “Durante le prime settimane gli sembrava di vedere qualcuno in agguato dietro a ogni cabina di controllo. Quando guida di notte o nella nebbia, è immerso nel sudore”. A volte, quando non si sente bene, prende dei giorni di malattia e continua a frequentare lo psicologo che si occupa di lui. Teme che un quinto “evento” possa distruggerlo definitivamente. Una volta ha dovuto prendersi una settimana di riposo. Più tardi ha saputo che durante quel periodo tre persone hanno scelto di suicidarsi lungo i binari che lui normalmente percorre.
Nel 2015 in Italia si sono verificati 135 suicidi ferroviari e 56 tentativi di suicidio, secondo i dati della Polizia ferroviaria. Nel 2016 c’è stato un aumento. All’Agenzia dell’Unione Europea per le ferrovie (ERA) risultano 165 suicidi. L’agenzia, nel suo ultimo rapporto, dice anche che all’interno della categoria degli incidenti mortali avvenuti sulle ferrovie dei paesi dell’Unione Europea, i suicidi rappresentano il 72 per cento del totale (tra il 2012 e il 2014: la media annua in tutti gli stati membri è di 3 mila casi). Si dice anche che a un macchinista capiterà di vivere questo “evento” almeno una volta ogni 15 anni di attività.
Sui giornali italiani sono state pubblicate diverse interviste a macchinisti che hanno investito con il treno una persona sui binari e il loro racconto è molto simile a quello di Kniest. Circa un anno fa un macchinista che conduce dei treni regionali in Veneto ha raccontato la sua esperienza al Gazzettino: «Ho parlato con la psicologa, mi sono preso qualche giorno di ferie. Ogni volta che ero solo, rivedevo la scena davanti a me, chiedendomi se avevo fatto tutto il possibile. Conoscevo già la risposta: sì. Ma anche se non era colpa mia, ero comunque consapevole che un ragazzo era morto sotto il mio treno. Non è facile da accettare». Un altro macchinista ha spiegato qual è la procedura in Italia, che è simile a quella della Germania:
«Anzitutto, uno del personale a bordo ha l’obbligo si andare a vedere. La prima cosa da fare è il ritrovamento del cadavere, spesso straziato orribilmente. (…) Poi arrivano la Protezione aziendale, la Polizia Ferroviaria, il 118 e il magistrato. Si deve redigere un primo rapporto informativo rispondendo alle domande della Polfer. Un secondo rapporto scritto dovrà essere inviato all’azienda. Ci soccorre uno psicologo che ci fa parlare. Ci aiuta a buttar fuori quanto teniamo dentro: la rabbia, la paura (…). Non è facile poi risalire a bordo e portare il convoglio in stazione. Se non te la senti, comunque, puoi chiedere la sostituzione. A casa può subentrare la depressione. Proprio per questo, nella formazione tecnica in aula, un tutor e uno psicologo ci istruiscono in merito: è un aiuto fondamentale».