La più grande crisi migratoria di cui non avete sentito parlare
Negli ultimi due anni un milione di venezuelani sono scappati dal loro paese: una crisi che ha le dimensioni di quella dei profughi siriani in Europa
Negli ultimi due anni più di un milione di persone ha lasciato il Venezuela cercando rifugio all’estero: si spostano principalmente in Colombia e in Brasile, arrivando a migliaia ogni giorno e scappando dalle sempre peggiori condizioni di vita in Venezuela. È una crisi umanitaria enorme, dalle dimensioni paragonabili a quella dei profughi siriani: e per questo in Sudamerica stanno succedendo cose simili a quelle che accadevano in Europa tra il 2015 e il 2016, con soldati schierati alle frontiere e raid della polizia per bloccare gli immigrati irregolari.
Con un articolo pubblicato a inizio marzo, il Washington Post ha provato a raccontare questo enorme esodo di cittadini venezuelani, e gli effetti che sta avendo sui paesi circostanti. Se prima il Venezuela era un paese che attirava immigrati, dall’arrivo al potere di Hugo Chávez nel 1999 la tendenza si è invertita. Inizialmente a lasciare il paese furono i più abbienti, che a migliaia si trasferivano in altri paesi del Sudamerica o – se potevano ottenere un visto – negli Stati Uniti. Poi, con l’arrivo di Nicolás Maduro e la bruttissima piega che ha preso l’economia venezuelana, le cose sono peggiorate coinvolgendo soprattutto persone finite in condizioni di povertà. Solo dallo scorso agosto circa 250.000 persone hanno attraversato il confine con la Colombia; ogni giorno circa 3.000 persone fanno la stessa cosa.
Emigrazioni di massa come questa non sono una completa novità per il Sudamerica. Dopo la rivoluzione cubana, nel 1959, circa 1,4 milioni di persone lasciarono Cuba scappando principalmente negli Stati Uniti; tra gli anni Ottanta e Novanta circa un milione di persone lasciò il Salvador per scappare dalla guerra civile. La velocità con cui le cose sono peggiorate in Venezuela, però, rende questa crisi molto peggiore delle altre. Tomás Páez, esperto di migrazioni alla Universidad Central de Venezuela, ha paragonato la crisi migratoria del Venezuela a quella dei profughi siriani o dei rohingya, che la scorsa estate a centinaia di migliaia hanno abbandonato il Myanmar per scappare dalle persecuzioni dell’esercito.
A Cucuta, una città colombiana di 650.000 abitanti che si trova lungo il confine con il Venezuela, gli effetti di questa nuova ondata migratoria si sono fatti sentire più che in altri posti. Fino a poco tempo fa la Colombia garantiva ai cittadini venezuelani dei visti temporanei molto facili da ottenere: inizialmente le migliaia di persone che attraversavano il confine ogni giorno lo facevano per fare la spesa o cercare medicinali introvabili in Venezuela. Lentamente però le cose sono cambiate: chi arrivava in Colombia non tornava più indietro. In una città piuttosto piccola l’arrivo di decine di migliaia di immigrati in pochi mesi ha reso subito difficile la convivenza, e sono nati immediatamente gli stessi meccanismi di chiusura e diffidenza che si sono visti in Europa negli ultimi anni. Dopo che a dicembre il numero di persone che attraversavano il confine era arrivato a 90.000 al giorno, la Colombia ha sospeso i visti temporanei per i venezuelani, ma questo ha soltanto spinto più persone ad attraversare illegalmente lungo i più di 2.000 chilometri di confine tra i due paesi.
I giornalisti del Washington Post che hanno visitato Cucuna hanno raccontato che ogni giorno nuovi venezuelani arrivano in città. Spesso sono intere famiglie, che si spostano con bambini in braccio, trasportando enormi valigie con dentro tutto quello che riescono a stipare. In altri casi arrivano persone gravemente malate, che si dirigono immediatamente verso gli ospedali della città. Nei parchi di Cucuna ora vivono centinaia di immigrati venezuelani e la polizia ha iniziato a fare dei rastrellamenti per espellere quelli che vengono trovati senza documenti. Il Washington Post ha raccontato che i furgoni della polizia vengono riempiti di persone che poi vengono fatte scendere al confine e costrette a tornare a piedi verso il Venezuela.
Le cose sono difficili anche sul confine brasiliano del Venezuela, dove ci sono quattro centri di accoglienza usati soltanto per aiutare i profughi venezuelani e dove, per gestire la crisi, è stato dichiarato lo stato di emergenza. Negli ultimi mesi 40.000 venezuelani sono arrivati a Boa Vista, la città brasiliana più vicina al confine, e nonostante abbia promesso ulteriori fondi per aiutare a gestire la crisi, il presidente brasiliano Temer ha anche deciso di raddoppiare il numero di soldati impiegati per controllare il confine. Problemi simili li hanno avuti, in misura minore, anche Panama – che ha imposto regole più rigide per i visti ai cittadini venezuelani e ha aumentato notevolmente il numero delle espulsioni – e il Perù, che però sta ancora offrendo dei permessi di lavoro temporanei ai venezuelani. Nel 2016 ne erano arrivati in tutto circa 40.000, nel 2017 ne sono arrivati quasi 150.000.
Per i paesi intorno al Venezuela, affrontare questa enorme crisi migratoria non è una cosa semplice, anche perché il Venezuela non è tecnicamente in guerra (anche se nel 2017 si è arrivati molto vicini a qualcosa che sembrava una guerra civile) ed è difficile inquadrare quello che sta succedendo come una crisi umanitaria. Per la stessa ragione, anche dal punto di vista burocratico, è difficile considerare i venezuelani che arrivano in Colombia o Brasile come “rifugiati”, ha spiegato al Washington Post Jozef Merkx, responsabile per la Colombia dell’Alto commissariato della Nazioni Unite per i rifugiati. Fermare i rimpatri sommari come quelli visti dal Washington Post a Cucuna – che possono riguardare anche persone in gravi condizioni di salute, donne incinte o minorenni – è quindi difficilissimo.
La Colombia, per ora, ha negato di avere avviato un programma di espulsioni di massa, spiegando che sta solo conducendo operazioni mirate per limitare il numero di immigrati sprovvisti di un regolare visto. Al momento, circa 100 persone al giorno vengono riaccompagnate al confine. «Come ogni altro paese al mondo, anche la Colombia ha diritto ad avere un confine sicuro» ha detto Winston Martínez, vicedirettore dell’agenzia colombiana per l’immigrazione, ripetendo una frase che anche in Europa si è sentito spesso.