Lo sfruttamento delle suore
Lo denuncia una rivista dell'Osservatore Romano: lavorano per i preti per ore, con paghe misere o inesistenti e un ruolo per niente riconosciuto all'interno delle gerarchie
La rivista mensile dell’Osservatore Romano “Donne Chiesa Mondo” di marzo è dedicata al lavoro delle donne, e c’è un articolo in cui si spiega come (anche) le suore siano sfruttate economicamente quando svolgono i lavori domestici all’interno delle strutture della chiesa, nelle abitazioni di preti, vescovi o cardinali, nelle scuole o negli ambulatori: sono pagate poco, spesso non sono pagate affatto, non hanno alcun orario o regolamento, non hanno un contratto e non hanno una convenzione con i vescovi o le parrocchie con cui lavorano. La loro professionalità, la competenza o i loro titoli di studio non sono riconosciuti e questo genera, all’interno delle gerarchie, «abusi di potere» e «violenza simbolica» che ha conseguenze molto concrete.
La rivista dell’Osservatore Romano (arrivata all’edizione numero 66) è diretta da Lucetta Scaraffia, femminista e docente di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma che si è occupata soprattutto di storia delle donne e di storia religiosa. L’inchiesta sul lavoro delle suore – ripresa anche da alcuni giornali internazionali – è stata scritta dalla giornalista francese Marie-Lucile Kubacki e riporta diverse testimonianze. I nomi delle suore che hanno scelto di parlare sono di fantasia.
Suor Maria, che è arrivata a Roma dall’Africa circa vent’anni fa, ha raccontato di ricevere spesso suore che svolgono un lavoro di servizio domestico presso le abitazioni di preti, vescovi o anche cardinali. Altre ancora, ha spiegato, lavorano in cucina in strutture di Chiesa o svolgono compiti di catechesi e d’insegnamento:
«Alcune di loro, impiegate al servizio di uomini di Chiesa, si alzano all’alba per preparare la colazione e vanno a dormire una volta che la cena è stata servita, la casa riordinata, la biancheria lavata e stirata. In questo tipo di “servizio” le suore non hanno un orario preciso e regolamentato, come i laici, e la loro retribuzione è aleatoria, spesso molto modesta».
Suor Maria ha anche spiegato che non solo non c’è alcuna forma di riconoscimento verso il lavoro domestico delle suore, ma che queste donne spesso subiscono trattamenti umilianti e non vengono nemmeno invitate a sedere alla tavola che servono:
«Un ecclesiastico pensa di farsi servire un pasto dalla sua suora e poi di lasciarla mangiare sola in cucina una volta che è stato servito? È normale per un consacrato essere servito in questo modo da un’altra consacrata? E sapendo che le persone consacrate destinate ai lavori domestici sono quasi sempre donne, religiose? La nostra consacrazione non è uguale alla loro?».
Suor Maria, che ha raccolto le testimonianze di molte sue colleghe, ha detto che questa situazione provoca una «una ribellione interiore molto forte», oltre che una profonda frustrazione, ma che sono poche le suore che hanno il coraggio di prendere parola pubblica sulla loro condizione lavorativa.
«Nel caso di suore straniere venute dall’Africa, dall’Asia e dall’America latina, ci sono a volte una madre malata le cui cure sono state pagate dalla congregazione della figlia religiosa, una fratello maggiore che ha potuto compiere i suoi studi in Europa grazie alla superiora. Se una di queste religiose torna nel proprio paese, la sua famiglia non capisce. Le dice: ma come sei capricciosa! Queste suore si sentono in debito, legate, e allora tacciono. Tra l’altro spesso provengono da famiglie molto povere dove i genitori stessi erano domestici. Alcune dicono di essere felici, non vedono il problema, ma provano comunque una forte tensione interiore. Simili meccanismi non sono sani e certe suore arrivano, in alcuni casi, ad assumere ansiolitici per sopportare questa situazione di frustrazione».
Questa situazione si verifica anche in Italia, si precisa nell’articolo: pone dei problemi molto concreti («Chi paga e come pagare le fatture quando le suore sono malate o hanno bisogno di cure perché invalidate dall’età?») e deriva da una responsabilità storica e condivisa che ha a che fare con la condizione della donna (anche) all’interno della Chiesa e che trova la complicità non solo degli uomini, ma anche delle superiori generali che non mettono in discussione il sistema, ma lo convalidano e vi partecipano attivamente. Suor Paule, una religiosa con incarichi importanti, ha spiegato:
«Credo che la responsabilità sia anzitutto storica. La suora a lungo ha vissuto solo come membro di una collettività, senza avere quindi bisogni propri. Come se la congregazione potesse prendersi cura di tutti i suoi membri senza che ognuno apportasse il suo contributo attraverso il proprio lavoro. È inoltre diffusa l’idea che le religiose non lavorano a contratto, che sono lì per sempre, che non vanno stipulate condizioni. Tutto ciò crea ambiguità e spesso grande ingiustizia. È anche vero che senza contratto le religiose sono più libere di lasciare un lavoro senza troppo preavviso. Tutto ciò gioca su due fronti, a favore e contro le religiose».
Dietro alla questione del lavoro c’è quindi una questione più generale, che ha a che fare con il riconoscimento e la scarsa valorizzazione delle donne nella cultura, nella società e all’interno di una struttura gerarchica molto maschile: «Dietro tutto ciò, c’è purtroppo ancora l’idea che la donna vale meno dell’uomo, soprattutto che il prete è tutto mentre la suora non è niente nella Chiesa. Il clericalismo uccide la Chiesa», ha spiegato suor Paule. Suor Paule ha poi spiegato di aver conosciuto delle suore che avevano servito per trent’anni in un’istituzione di Chiesa e che le hanno raccontato come «quando erano malate, nessun prete di quelli che servivano andava a trovarle. Dall’oggi all’indomani venivano mandate via senza una parola»:
«A volte succede ancora così: una congregazione mette una suora a disposizione su richiesta e quando quella suora si ammala viene rimandata alla sua congregazione. E se ne invia un’altra, come se fossimo intercambiabili. Ho conosciuto delle suore in possesso di una dottorato in teologia che dall’oggi all’indomani sono state mandate a cucinare o a lavare i piatti, missione priva di qualsiasi nesso con la loro formazione intellettuale e senza una vera spiegazione. Ho conosciuto una suora che aveva insegnato per molti anni a Roma e da un giorno all’altro, a cinquant’anni, si è sentita dire che da quel momento in poi la sua missione era di aprire e chiudere la chiesa della parrocchia, senza altra spiegazione».
Alle suore non vengono dunque riconosciute né professionalità né competenze e sono considerate come delle volontarie «di cui si può disporre a piacere»: cosa che porta però a dei «veri e propri abusi di potere» nei loro confronti. Suor Cécile si trova in questa condizione:
«Al momento lavoro in un centro senza contratto, contrariamente alle mie consorelle laiche. Dieci anni fa, nel quadro di una mia collaborazione con i media, mi è stato chiesto se volevo davvero essere pagata. Una mia consorella anima i canti nella parrocchia accanto e dà conferenze di quaresima senza ricevere un centesimo. Mentre quando un prete viene a dire la messa da noi, ci chiede 15 euro».
La soluzione proposta è che siano le suore stesse e le donne della Chiesa a prendere parola, per prime, sulla loro situazione. Ma «il cambiamento è difficile», ha detto Lucetta Scaraffia al New York Times: «Molti prelati non vogliono ascoltare queste cose, perché è più facile avere delle suore che interpretano dei ruoli sottomessi». Qualche settimana fa un gruppo di una trentina di donne appartenenti a varie realtà ecclesiali di tutta Italia ha lavorato collettivamente a un “Manifesto per le donne nella Chiesa” che dopo la pubblicazione è stato sottoscritto e condiviso anche da molte altre. Il Manifesto contiene delle richieste molto precise proprio su queste questioni:
– Rispetto nei confronti del nostro impegno, la possibilità di esprimere un servizio coerente con le nostre competenze e capacità
– Che i presbiteri ai quali le nostre comunità sono affidate conoscano e apprezzino il femminile, che abbiano un rapporto sano e sereno con le donne, che siano persone psicologicamente mature.
– Che si prenda in considerazione che la ricerca vocazionale femminile ha aperto nuovi e più articolati orizzonti, in una maturazione di prospettive che necessita di attenzioni e risposte.
– Che si riconosca la possibilità per le donne di avvicinarsi al cuore della vita ecclesiale e che si attribuisca il dovuto valore all’autentico desiderio di partecipare ad una ministerialità più attiva, compresa quella sacramentale. E che pertanto è legittimo e va nel senso del bene per la Chiesa intera iniziare a concepire risposte concrete in questo ambito.
Non siamo dei sostituti d’azione, ma possiamo “inventare” forme nuove che arricchiscono la chiesa.
Non chiediamo posti di potere, ma di essere pienamente riconosciute come figlie di Dio e membri della comunità alla pari degli uomini.
Per questo, prosegue il Manifesto, «siamo pronte a metterci al servizio della chiesa con tre criteri»:
– Assertività: non temiamo di proporre, di chiedere riconoscimento per ciò che facciamo e portiamo alla comunità
– Libertà: il nostro agire non è finalizzato a conquistare posti di prestigio e questo ci mette in condizioni di non ricattabilità
– Alleanza femminile: là dove siamo e tra noi scegliamo di essere alleate delle sorelle che incontriamo e soprattutto di non cadere nella rivalità tra donne per ottenere l’approvazione maschile– Abbiamo deciso di trovarci tra donne adulte, che hanno vissuto e vivono un percorso di fede per condividere e scambiare e siamo pronte ad accogliere quante decideranno di unirsi a noi
– Vogliamo dare un messaggio chiaro sul genere di femminilità di cui riteniamo che la Chiesa abbia bisogno
– Vogliamo farci conoscere per testimoniare che nella Chiesa ci sono donne che non si sottomettono e poter così avvicinare anche altre sorelle nella fede che si sentono disorientate da quest’ondata tradizionalista
– Non rinunciamo a portare avanti istanze serie e grandi come anche forme di servizio presbiterale femminile.