È giusto vietare i corsi universitari interamente in inglese?
Roger Abravanel dice di no, sul Corriere della Sera, spiegando perché non sono “discriminatori”
A gennaio una sentenza del Consiglio di Stato ne ha confermata una del 2013 del Tar, proibendo al Politecnico di Milano di organizzare dei corsi di laurea magistrale e di dottorato interamente in lingua inglese. La decisione del Politecnico era stata presa nel 2012, ma un gruppo di docenti – 96 su 912 – aveva fatto ricorso al Tar, che aveva dato loro ragione. Il Consiglio di Stato, cui il Politecnico si era appellato, ha confermato la sentenza rifacendosi a una precedente della Corte Costituzionale, che aveva approvato i corsi in inglese previsti dalla riforma Gelmini a patto che prevedessero alcune parti in italiano.
Roger Abravanel, editorialista del Corriere della Sera ed esperto di istruzione e lavoro, ha criticato la decisione del Consiglio di Stato, negando che i corsi in inglese siano in qualche modo discriminatori: perché il merito di uno studente, e anche di un docente, si misura anche in base alla conoscenza dell’inglese, oltre a quella della materia.
La sentenza del Consiglio di Stato che vieta i corsi esclusivamente in lingua inglese al Politecnico di Milano danneggia gli studenti italiani. I magistrati sostengono che si rischia di «marginalizzare la lingua italiana estromettendola integralmente da interi rami universitari del sapere». Ma sembra un rischio remoto dato che l’insegnamento esclusivamente in lingua inglese è limitato alla laurea magistrale e al dottorato, come peraltro avviene in altri atenei prestigiosi come l’Eth di Zurigo. Al Politecnico 25 mila studenti (mille stranieri) frequentano ventiquattro corsi delle lauree triennali esclusivamente in italiano e 11 mila (più 5 mila stranieri) frequentano le lauree magistrali e i dottorati studiando prevalentemente in inglese.
Il Consiglio di Stato sostiene che viene leso il diritto allo studio perché l’insegnamento in lingua inglese impedirebbe a coloro che, pur capaci e meritevoli, non conoscano affatto una lingua diversa dall’italiano, «di raggiungere i gradi più alti degli studi». In realtà gli iscritti italiani alle lauree magistrali sono aumentati del 15 per cento e gli abbandoni si sono ridotti al 6 per cento. Nessuno studente meritevole con pochi mezzi è stato escluso. Il tema vero è la definizione di «merito»: uno studente che frequenta i corsi di un master o di un dottorato in Ingegneria non può essere considerato capace e meritevole se non conosce la lingua inglese, che è importante come la matematica.
I testi principali sono tutti in inglese, i convegni sono in inglese, le pubblicazioni sono in inglese. E infatti, dal momento in cui si è passati al master in inglese la qualità della formazione è decisamente migliorata, il tasso di occupazione delle lauree magistrali è passato dal 90,9 al 92,9 per cento e la soddisfazione dei datori di lavoro è migliorata. Accogliendo il ricorso di un centinaio di docenti (su mille), il Consiglio di Stato protegge (pochi) lavoratori e non i «clienti», quei 40 mila studenti italiani che sudano sui banchi del Politecnico. Si preoccupa del diritto allo studio che è stra-garantito da rette basse e borse di studio ma non del diritto al lavoro che senza una buona conoscenza dell’inglese è difficilmente concepibile dopo facoltà come Ingegneria e Architettura.