Come inizia “Storia della mia ansia”
Oggi esce il sesto romanzo di Daria Bignardi, che racconta di una donna, di un amore e di quel che può avere di buono un'ansia
È uscito martedì Storia della mia ansia, il nuovo romanzo di Daria Bignardi e il sesto della sua carriera di romanziera iniziata nel 2009 e che si è aggiunta a quella di giornalista e conduttrice e autrice televisiva. Bignardi aveva iniziato a scriverlo prima di essere nominata direttore di Rai3 nel 2016 e lo ha concluso dopo avere lasciato quel ruolo un anno e mezzo dopo. Come i cinque precedenti il libro è pubblicato da Mondadori. La protagonista si chiama Lea ed è sposata con Shlomo, con cui ha un rapporto e un amore complicati. L’ansia del titolo è quella di Lea, appunto. Il terzo percorso del romanzo – insieme all’amore e all’ansia – è la malattia della protagonista, ma Bignardi l’ha definito più un contesto per gli altri due che un tema. In un’intervista a Vanity Fair ha parlato del suo personaggio e della «nuova occasione d’amore» che le capita dopo aver scoperto di avere un tumore al seno:
«In questa storia a Lea sarebbe potuto accadere di tutto: cadere in un dirupo, avere un incidente d’auto, essere fatta prigioniera dai talebani come succede a Brody in Homeland. Bisognava che a questa donna innamorata e divorata da un’ansia atavica succedesse qualcosa di molto forte. Un evento importante che cambiasse il tessuto delle sue giornate e dei suoi pensieri».
Questo è il primo capitolo.
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Shlomo sostiene che innamorarci sia stata una disgrazia. La prima volta che l’ha detto mi ha ferita, poi ho capito che aveva ragione: insieme siamo infelici.
Credo di soffrire più di lui per quest’amore disgraziato, ma chi lo sa cosa provano veramente gli altri, cosa prova persino tuo marito.
Shlomo non parla delle sue sofferenze: pensa che farlo sia indecente, o ha imparato a fingere che non esistano. È il suo modo per difendersi da loro e da me.
Forse Shlomo non soffre, tranne che per me, anche se lo ammette solo quando gli dico che mi fa soffrire. Allora mi guarda stizzito, un lampo scurisce i suoi occhi gialli e sibila: «E io credi che non stia male?». Non spiega perché. Shlomo non si lamenta. Shlomo non chiede.
Insieme stiamo male, ma non possiamo lasciarci.
Dice che non mi lascerà mai, non so se per senso di responsabilità, pigrizia, o perché mi ama più di quanto sia disposto a riconoscere.
Io non lo lascerò perché sono innamorata di lui, della sua grazia nascosta come un minerale, del suo odore, del suo modo di parlare coi bambini.
Non lo sopporto ma lo amo. Shlomo è la mia croce. Deve essermi toccato per punirmi di qualcosa che ho fatto in una vita precedente, o da ragazza, quando spezzavo cuori senza neanche accorgermene. Sono stata una figlia amata, anche se amata male, mentre non ho mai visto la madre di Shlomo abbracciarlo: le rare volte che si incontravano porgeva la guancia per farsela sfiorare con un bacio. Shlomo sostiene che avere avuto una madre anaffettiva sia un vantaggio. Disprezza i sentimentalismi, i sentimenti lo annoiano.
A volte penso che sia stato vaccinato dalla sua infanzia – della quale non mi ha mai parlato – di bambino grasso. A tredici anni ha scoperto la palestra e si è trasformato nell’uomo massiccio di oggi, ma è stato un bambino grasso, con una madre rigida e un padre assente, ed è cresciuto in una comunità ristretta e contadina: chissà se ha patito, se lo hanno preso in giro, se ha dovuto combattere e imparare a difendersi. Quello che impari da bambino non lo perdi più.
Nelle poche foto d’infanzia che mi ha mostrato era sempre accigliato. O forse, più che accigliato, il suo sguardo era concentrato, pronto, serio, come quello di oggi. Lo sguardo vigile di chi sta attento a non lasciarsi sottomettere.
Shlomo non parla dei problemi di Israele, delle guerre, degli attentati, del genocidio che ha coinvolto i suoi nonni. A volte penso che si senta in colpa per essere andato via. Altre che mi abbia sposata per lasciarsi tutto alle spalle.
Shlomo non sopporta la mia ansia. La scambia per mancanza di fiducia in me stessa e in lui. Pensa che sia una debolezza. Lo so come funziona: anche io odiavo l’ansia di mia madre, ma capivo che era una malattia. Odiavo la sua ansia, non lei.
Shlomo non capisce le malattie perché non si è mai ammalato. A sentir lui, gli è capitata solo la disgrazia di innamorarsi di me, nella vita. Per questo a volte temo che al primo accidente rischi di spezzarsi in due, come un albero colpito dal fulmine. Ma Shlomo sa proteggersi. Io non ne avevo mai sentito il bisogno, prima.
Ho vissuto godendo di tutte le emozioni fino in fondo: mi piaceva sentirmi esaltata e persino sconvolta, dalla vita. Shlomo invece è lineare, distaccato. Lo è sempre stato, ma un tempo sapevo che mi amava. Ora non più.
L’ultima volta che gliel’ho chiesto ha risposto “Non lo so e non lo voglio sapere”. Me lo ha scritto in un messaggio: quando l’ho letto ho sentito un dolore acuto al petto, come se mi avesse sferrato una coltellata.
La freddezza di Shlomo mi fa male in un punto preciso del corpo.
La prima volta che abbiamo fatto l’amore, nella sua stanza bianca di Neve Tzedek, per me è stato bellissimo, non so se lo sia stato anche per lui. Shlomo non parla di queste cose. Shlomo non parla di sentimenti, sesso, salute.
I primi anni che stavamo insieme, la sera ogni tanto mettevo un disco e ballavamo abbracciati. Quando facevamo l’amore diceva che mi amava. Ma abbiamo sempre litigato, anche allora: parole dure come pugni in testa.
I silenzi con cui mi puniva per settimane, dopo ogni lite, erano ancora più crudeli: una morsa attorno al cuore, un’asfissia, una tortura. Ora litighiamo meno, ma i suoi silenzi durano mesi. E io ogni giorno devo inventarmi qualcosa per sfuggire al dolore della sua distanza: un viaggio, un lavoro, una nuova amicizia. Dieci gocce di Xanax. Un gin tonic.
Eppure, non posso lasciarlo.