Elogio della plastica
Permette di realizzare oggetti oggi insostituibili, scrive Quartz, e i molti problemi che provoca sono più un sintomo che una malattia
Due settimane fa la Commissione europea ha indicato una serie di linee guida che prevedono che entro il 2030, tutti gli imballaggi fatti con la plastica debbano essere riutilizzati o riciclati, lanciando anche uno studio per capirne meglio gli impatti sul Mediterraneo. Quando si parla di plastica infatti si fa spesso riferimento all’inquinamento degli oceani, all’impatto negativo sulla fauna e anche a quello sulla nostra salute: Quartz ha pubblicato invece un articolo in cui si spiegano i vantaggi e i benefici offerti dalla plastica e il problema reale che abbiamo. Che non è la plastica.
La giornalista scientifica Sarah Wild sostiene da subito che non si possa negare che la plastica sia un grave problema per il pianeta. Secondo uno studio della Fondazione Ellen MacArthur, presentato all’ultimo Forum economico mondiale di Davos, fra trent’anni nei mari ci sarà più plastica che pesce, in termini di volume. Nel 1964 la produzione di plastica è stata pari a 15 milioni di tonnellate, nel 2014 a 311 milioni di tonnellate: si prevede che raddoppierà nei prossimi due decenni. Le micro-plastiche, le piccole particelle che provengono da diverse fonti come i processi industriali, vengono ingerite dagli animali marini e risalgono così la catena alimentare fino ad arrivare agli esseri umani. I pezzi più grossi restano poi bloccati nello stomaco uccidendo gli stessi animali.
Se oggi dovessimo eliminare la plastica, però, perderemmo la forma primaria di confezionamento alimentare: questo avrebbe delle conseguenze molto serie per il pianeta e per gli esseri umani. Quartz sostiene dunque che invece di concentrare l’attenzione solo su questo specifico materiale, andrebbe affrontato innanzitutto il sistema che porta a questa sovrapproduzione e cioè il modo in cui produciamo e consumiamo il cibo.
«Una delle principali ragioni per cui oggi la plastica esiste è che le persone vogliono cibo conveniente». Sono state dunque sviluppate catene di approvvigionamento alimentare globali e industrializzate. Affinché questa complessa e redditizia catena possa consegnare i cibi nei supermercati locali, deve confezionare quegli stessi prodotti (che spesso provengono da un altro paese) in contenitori privi di agenti patogeni e che favoriscano la conservazione: ed ecco che le banane entrano in un contenitore di plastica. In termini di commercio mondiale di merci, i prodotti agricoli nel 2003 valevano 674 miliardi di dollari, nel 2006 964 miliardi di dollari e nel 2016 1610 miliardi di dollari.
D’altra parte, il cibo che mangiamo entra in contatto con un elevato numero di persone: il produttore, il trasformatore, il distributore, il commerciante e il rivenditore. Se non ci fosse alcuna barriera tra questi soggetti e il cibo, gli agenti patogeni di un paese viaggerebbero con molta più facilità da un paese all’altro. «L’imballaggio di massa del cibo è una barriera importante contro la contaminazione», ha spiegato un esperto di nutrizione in un recente articolo del British Medical Journal. Dopodiché, nel supermercato, la confezione di plastica contribuisce a tenere quel prodotto separato dagli altri, impedendo l’effetto della maturazione causato dall’etilene, un ormone gassoso presente in molte specie vegetali (l’etilene è in grado di far maturare più velocemente la frutta: per questo per esempio alcuni tipi di frutta messi vicini alle mele, che producono etilene, maturano più in fretta).
La plastica ha inoltre un ruolo molto importante nella lotta contro la malnutrizione nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. Le persone che vivono in queste parti del mondo hanno infatti meno probabilità di mangiare frutta e verdura a sufficienza: secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità quasi il 3 per cento dei decessi nel mondo sono attribuibili al basso consumo di frutta e verdura. Se la plastica non fosse così utilizzata nella conservazione degli alimenti, ancora più persone potrebbero soffrire di malnutrizione.
Se dunque vogliamo liberarci della plastica – «e ci sono molti validi motivi per cui dovremmo volerlo», dice Quartz – dovremmo cambiare innanzitutto il modo in cui funzionano la produzione e il trasporto degli alimenti, e dovremmo modificare la nostra cultura alimentare che ci porta ad acquistare alimenti in ogni periodo dell’anno, a basso costo e ogni volta che li desideriamo. La prima possibilità potrebbe dunque essere utilizzare un diverso modo di confezionare il cibo, che potrebbe non essere efficace quanto la plastica in termini di separazione da chi ha contatti con quel prodotto o da altri alimenti, ma che ridurrebbe la quantità degli imballaggi. Ci sono diverse innovazioni in questo settore, come i bio-nanocompositi, cioè materiali derivanti da risorse rinnovabili, e gli imballaggi a base vegetale. Ma queste innovazioni avrebbero bisogno di numerosi investimenti prima di poter arrivare ad avere il prezzo degli imballaggi di plastica o a essere diffusi quanto gli imballaggi in plastica: e se così non fosse, il rischio è che un numero sempre maggiore di persone non sia in grado di permettersi frutta e verdura. Imballi più ecologici oggi sono imballi più costosi: adottandoli, un gran numero di persone semplicemente comprerebbe meno frutta e verdura o non ne comprerebbe più.
La seconda possibilità sarebbe migliorare e aumentare la quantità della plastica riciclata, per non produrne sempre di nuova: è certamente la strada più praticabile oggi, e quella che promette di avere i risultati migliori nel breve termine senza costringerci a sacrifici significativi. Infine, si dice su Quartz, si potrebbe mettere in discussione il modo in cui produciamo il cibo, un metodo che ha permesso di sfamare un numero di persone grande come non era mai stato nella storia dell’umanità, ma che rimane basato su sistemi di produzione centralizzata e industrializzata che causano sprechi enormi: secondo uno studio commissionato dalla FAO, circa un terzo del cibo prodotto ogni anno per il consumo umano (circa 1,3 miliardi di tonnellate) va perduto o sprecato, e ogni anno i consumatori dei paesi ricchi sprecano quasi la stessa quantità di cibo (222 milioni di tonnellate) dell’intera produzione alimentare netta dell’Africa sub-sahariana (230 milioni di tonnellate). Quindi, è la conclusione dell’articolo, forse la plastica è solo il sintomo, mentre la vera malattia è il nostro sistema di produzione alimentare.