Cosa può succedere ora a Netanyahu?
Il primo ministro israeliano rischia l'incriminazione per corruzione e abuso di fiducia, ma potrebbe non essere sufficiente per rimuoverlo dal suo incarico
«Fino a quando Benjamin Netanyahu continuerà ad essere il primo ministro israeliano?» Se lo chiedeva in estate il quotidiano israeliano Haaretz e se lo chiedono oggi molti altri dopo che la polizia israeliana ha aveva suggerito al procuratore generale di incriminare il primo ministro. Netanyahu è stato accusato di corruzione, frode e abuso di fiducia nell’ambito di due inchieste che in Israele hanno avuto grande risalto. A meno di sorprese Netanyahu arriverà però senza intoppi alla scadenza naturale del suo mandato, nel novembre 2019, per due ragioni: l’instabilità della politica israeliana e la procedura giudiziaria prevista in Israele per rimuovere il primo ministro.
Cosa c’entra la politica
Netanyahu è accusato di avere aiutato amici facoltosi in cambio di regali e di aver chiesto a un popolare quotidiano israeliano una copertura a lui più favorevole. A prescindere dalla gravità della vicenda, nota da molti mesi, è difficile che i partiti che appoggiano Netanyahu decidano di mollarlo, anche se venisse formalmente incriminato.
Il sistema parlamentare israeliano è studiato per privilegiare l’inclusione delle minoranze rispetto alla governabilità. La legge elettorale, che prevede un proporzionale puro, impedisce ai partiti tradizionali di governare da soli e li obbliga a cercare il sostegno dei partiti minori, che tradizionalmente rappresentano alcuni blocchi precisi della eterogenea società israeliana. Giudaismo Unito nella Torah rappresenta gli ebrei ultra-ortodossi, lo Shas è il partito di destra di Mizrahì e Sefarditi, rispettivamente gli ebrei che vengono dal mondo arabo e dalla penisola iberica, e così via. Al momento la maggioranza di governo è composta dal Likud – il principale partito di centrodestra, in cui milita anche Netanyahu – i centristi di Kulanu e quattro partiti di destra nazionalista e radicale.
Questi partiti non hanno alcun interesse a far cadere il governo: più Netanyahu e il Likud si indeboliscono, più riescono a imporre la loro agenda. Da quando Netanyahu è indagato, il governo ha approvato fra le altre cose una legge che permette ai cittadini israeliani di appropriarsi forzosamente di terreni privati in territorio palestinese e ha avviato l’iter legislativo di leggi molto controverse, fra cui la sospensione delle agevolazioni fiscali per i cittadini israeliani che appoggiano BDS, la principale campagna globale per il boicottaggio di Israele.
Va tenuto conto di un’altra cosa. In Israele il dibattito pubblico di questi anni si è molto polarizzato, come del resto è successo in altri paesi, e Netanyahu ha ancora un discreto consenso. Secondo un sondaggio realizzato dalla tv Reshet, il 49 per cento degli intervistati ritiene che Netanyahu debba restare al suo posto, mentre il 38 per cento sostiene che l’indagine della polizia faccia parte di una trama per rimuoverlo dal suo incarico.
In sintesi, Netanyahu è bloccato in una specie di trappola. Conserva ancora il consenso necessario per rimanere al governo senza eccessive pressioni, ma non ne ha a sufficienza per opporsi alle leggi sempre più radicali proposte dai suoi alleati.
I leader dei partiti minori hanno acquisito talmente potere e autorevolezza che possono permettersi di criticare apertamente Netanyahu senza pagarne le conseguenze politiche. Naftali Bennett, ministro dell’Economia e leader di un partito che ha 8 seggi al parlamento israeliano, ha difeso pubblicamente Netanyahu ma ha aggiunto che «il leader dello stato ebraico non può accettare regali del genere dai miliardari», riferendosi a uno dei due casi giudiziari su cui dovrà decidere il procuratore generale. Bennett può permettersi questa ambiguità – criticare Netanyahu ma continuare a sostenerlo – perché Netanyahu e il suo governo quasi certamente rimarranno al suo posto.
La procedura giudiziaria, dicevamo
Fra la situazione attuale e l’eventuale rimozione per via giudiziaria di Netanyahu – che potremmo chiamare “impeachment” – ci sono diversi ostacoli.
Per prima cosa, la misura presa dalla polizia al termine delle indagini è solo una raccomandazione. Netanyahu non ha ancora ricevuto il rinvio a giudizio, cioè lo strumento con cui scatta formalmente l’incriminazione. Per la legge israeliana l’unica persona che può incriminare il primo ministro è il procuratore generale dello stato, a cui il caso arriverà nei prossimi giorni. Al momento la carica è ricoperta da Avichai Mandelblit, un rispettato giurista che per molti anni è stato il magistrato più alto in grado dell’esercito israeliano. Mandelblit è stato nominato da Netanyahu, a cui fino a poco tempo fa era molto vicino, ma è considerato sufficientemente indipendente da non attirare il sospetto di riservare a Netanyahu un trattamento di favore. Mendelblit ci metterà comunque parecchio tempo per decidere cosa fare. Nei rari precedenti messi insieme da Haaretz, il procuratore generale ha impiegato diversi mesi per decidere se rinviare a giudizio oppure far cadere le accuse.
Anche se Mendelblit decidesse per l’incriminazione, la rimozione di Netanyahu sarebbe ancora lontana. Mettiamo che Netanyahu venga condannato in primo grado. La legge israeliana non prevede una rimozione diretta. Se la condanna è particolarmente grave dal punto di vista morale, e non è detto che quella di Netanyahu possa esserlo, il Parlamento può intervenire e rimuovere il primo ministro con un voto a maggioranza semplice. La rilevanza politica di una condanna sarebbe notevole, ma Netanyahu potrebbe conservare il suo posto facendo votare la maggioranza contro la sua rimozione.
Esiste un’ultima possibilità. La legge israeliana prevede che la Corte Suprema possa rimuovere il primo ministro e far cadere il governo, ma solo nel caso in cui il primo ministro si rivolga alla Corte per appellare una sentenza di primo grado, e la Corte confermi la condanna. In questo caso, conoscendo i tempi della giustizia israeliana e della Corte Suprema, potrebbero comunque volerci degli anni prima di arrivare a un verdetto definitivo.