Modelle e popcorn
Cosa si è visto alla settimana della moda di New York: le sorelle Hadid, celebrities in prima fila e una nuova riflessione sull'America
Si è appena conclusa la settimana della moda di New York: cioè il momento in cui – dall’8 al 14 febbraio – i principali marchi di moda statunitensi hanno presentato le loro collezioni per l’autunno/inverno 2018/19.
Alcune aziende importanti quest’anno hanno deciso di sfilare altrove: Proenza Schouler, Rodarte, Altuzarra e Thom Browne a Parigi, Delpozo a Londra, e Tommy Hilfiger a Milano. Queste scelte hanno fatto parlare ancora del calo di rilevanza della settimana della moda newyorkese, che rimane però sempre centrale come evento mondano – in prima fila c’erano attrici come Nicole Kidman, Laura Dern, Katie Holmes, Millie Bobby Brown, Margot Robbie e la rapper Cardi B. – e in parte politico: quella di New York è sempre stata la settimana della moda più “impegnata” (le altre principali sono Londra, Milano e Parigi) e ci sono stati riferimenti a Time’s Up e al movimento #MeToo, a cui è stata dedicata anche una sfilata.
Il caso Weinstein si è fatto sentire anche perché Marchesa, il marchio di cui la sua ex moglie , Georgina Chapman, è co-fondatrice e direttrice creativa, ha annullato la sfilata e deciso di presentare i capi in piccoli eventi ristretti. Erano comunque presenti i soliti grandi nomi, come Calvin Klein, Ralph Lauren, Tom Ford, Jeremy Scott e Marc Jacobs, e qualche nuovo arrivo: Bottega Veneta, il marchio italiano di pelletteria di lusso, e Juicy Couture, che fece diventare di moda la ciniglia a inizio anni Duemila e che ora sta vivendo un momento di riscoperta.
Secondo gli addetti ai lavori, la settimana della moda di New York non è riuscita a riscattarsi molto dal suo deludente recente passato. Scrive per esempio la critica di moda del New York Times, Vanessa Friedman:
«Sta soffrendo un qualche tipo di crisi di identità, non solo perché gli stilisti si stanno spostando all’estero (è una scusa troppo facile) o facendo film anziché sfilate (preparatevi per quello di Monse) ma perché è nel mezzo di un ricambio generazionale: sia all’interno, con i fondatori di una certa età che si preparano a lasciare il potere, che all’esterno, a proposito di quello che i clienti vogliono. Athleisure? Streetwear? Capi senza un genere preciso? Abiti da sera? Tutte queste cose insieme?»
C’è una sfilata che ha messo d’accordo quasi tutti i critici ed è quella di Calvin Klein, disegnata dallo stilista belga Raf Simons, arrivato nell’agosto 2016 dopo aver diretto Christian Dior. Anche in questa sua collezione, come nelle precedenti, Simons ha esplorato un’idea di America riflettendola, oltre che nei vestiti, anche nella scenografia: in passerella e tra il pubblico erano sparsi 190 metri cubi di popcorn, tra impalcature di legno che ricordavano la Casa della Prateria con sopra appese immagini delle opere di Andy Warhol. I modelli indossavano passamontagna, guanti da astronauta, tute da vigili del fuoco e stampe di Wile Coyote, a metà strada tra la celebrazione delle esplorazioni spaziali degli anni Sessanta, la cultura pop, e una minaccia apocalittica da cui difendersi. Come colonna sonora, classica, c’erano The Sound of Silence di Simon & Garfunkel e California Dreamin’ dei Mamas & The Papas.
Sempre Friedman ha scritto che se la maggior parte degli stilisti sembrava rinchiusa in un mondo fantastico, Simons ha costruito una collezione sull’identità nazionale: è stato «un nuovo modo di esprimere come pensi a te stesso e al tuo mondo in un preciso momento, quel tipo di moda che è mancata sulle passerelle di questa settimana».
Tra gli altri degni di nota: Jeremy Scott – che oltre a disegnare per il suo omonimo marchio è anche direttore creativo di Moschino – ha fatto sfilare le modelle con abiti e parrucche coloratissime; Alexander Wang ha vestito le impiegate e donne d’affari dell’Alexander Wang Group, un’azienda d’affari fittizia, con uno stile anni Ottanta e Novanta uscito da Matrix; Ralph Lauren si è ispirato alle vacanze in crociera e alla Giamaica, dove ha una villa; Carolina Herrera ha mostrato il suo solito stile raffinato e romantico nell’ultima collezione disegnata per la sua azienda.
La settimana è stata conclusa dalla sfilata di Marc Jacobs, che alcuni hanno criticato come un’operazione di recupero degli anni Ottanta, nostalgica e poco rispettosa delle forme femminili, con i cappotti enormi, i cappelli a tese larghe, i pantaloni scampanati. Altri invece l’hanno apprezzata moltissimo per l’ispirazione all’alta moda di firme come Montana, Mugler, Ungaro e Saint Laurent, e per la sfrontatezza di andare contro le tendenze del momento: «spalle larghe, cinturoni, pantaloni a pieghe larghissimi, colletti con enormi fiori, Jacobs non ha modernizzato questi anacronismi, li ha esagerati e ingranditi sempre di più. […] Non ha mai temuto di fare il bastian contrario e qui l’ha fatto con gusto totale», ha scritto per esempio Nicole Phelps su Vogue.
Per Lauren Sherman di Business of Fashion, Jacobs è stato insieme a Calvin Klein l’unico momento di moda per cui valesse la pena comprare un biglietto aereo e presentarsi di persona. «Gli altri stilisti hanno proposto delle collezioni di qualità, ma alla fine internet ha davvero ucciso lo spettacolo. Ora il lusso ultimo è il tempo, e significa che molti preferiscono guardare a casa un livestream o esaminare una collezione al computer piuttosto che perdersi nell’inefficienza della Settimana della moda di New York, che dovrebbe almeno condensarsi da otto giorni a quattro. Sarebbe necessario che il sindacato degli stilisti americani diventasse più severo sui marchi che invita a sfilare nel calendario ufficiale […]. Sia Londra che l’Italia hanno già abbracciato questa filosofia, e hanno fatto bene».