Storia di Ji Seong-ho, scappato dalla Corea del Nord
Stanotte è stato applaudito da tutto il Congresso statunitense, Democratici e Repubblicani, mentre mostrava le stampelle simbolo della sua libertà
Tra gli applausi più rumorosi che si sono sentiti questa notte al Congresso degli Stati Uniti durante il discorso sullo stato dell’unione pronunciato da Donald Trump, ci sono stati quelli per Ji Seong-ho, un uomo nordcoreano con una storia incredibile. Si sono alzati tutti, Democratici e Repubblicani: si sono girati verso Ji, che ha ricambiato il saluto tenendo in mano le due stampelle di legno usate 12 anni fa per scappare dalla Corea del Nord. Ji se le porta sempre dietro, quelle stampelle. Dice che gli servono per ricordarsi che «si può raggiungere qualsiasi cosa, se non ci si arrende mai», una convinzione che sembra averlo aiutato a superare una serie di eventi incredibilmente violenti che gli sono successi durante la sua vita.
La storia di Ji inizia negli anni Novanta con la terribile carestia che uccise centinaia di migliaia di nordcoreani (secondo alcune organizzazioni umanitarie, i morti furono tre milioni). A quel tempo Ji andava alla scuola elementare. Come ha raccontato molti anni dopo all’Oslo Freedom Forum, in un evento organizzato dall’organizzazione Human Rights Foundation, la carestia uccise molti suoi compagni di classe e parenti: si cercava di sopravvivere alla fame mangiando erba, cortecce e topi. Qualcuno cominciò a rubare carbone estratto da una miniera che si trovava in mezzo alle montagne, vicino a casa di Ji, dove lavoravano i prigionieri politici di un campo di lavoro. Il carbone veniva venduto per comprare del cibo, quando andava bene: ma non sempre andava bene.
Anche Ji, sua madre e sua sorella più piccola, che al tempo aveva 12 anni, iniziarono a rubare carbone: salivano sul treno merci che dal campo dei prigionieri politici andava verso una centrale elettrica e si caricavano sulle spalle chili di carbone, cercando di non farsi vedere dai soldati che stavano di guardia al convoglio. Quando venivano scoperti, venivano picchiati fino a rompere loro le ossa.
La mattina del 7 marzo 1996, quando aveva 14 anni, Ji salì sul treno numero 4031, dove molta altra gente disperata stava cercando di portarsi via un po’ delle 60 tonnellate di carbone che erano state caricate a bordo. A un certo punto Ji, che non mangiava da giorni, perse i sensi. Si risvegliò sui binari: il treno era passato sulla sua gamba sinistra, che era rimasta attaccata al resto del corpo solo con un tendine: «Provai a fermare il sangue afferrando la mia gamba, ma mi accorsi che tre dita della mia mano sinistra erano state tranciate, mi usciva il sangue anche da lì». Ji cominciò a urlare e piangere finché non fu trovato dalla sorella, che lo avvolse con una sciarpa e aspettò insieme a lui l’arrivo dei soccorsi. Faceva molto freddo, ha raccontato Ji, le temperature erano attorno allo 0. Fu salvato da un uomo che lo portò all’ospedale locale.
Qui fu operato, senza che fosse disponibile del sangue per le trasfusioni, e senza anestesia. Nel suo discorso all’Oslo Freedom Forum, Ji ha raccontato, molto emozionato, cosa successe dopo:
«Ancora oggi ricordo vividamente il suono della sega che mi tagliava l’osso della gamba e le vibrazioni che generava, che attraversavano il resto del mio corpo. Mi ricordo ancora cosa provai quando usarono un piccolo bisturi per rifilare l’osso frantumato. Posso ancora sentire il suono che faceva il mio sangue che gocciolava nella bacinella messa sotto al tavolo operatorio. Mi ricordo ancora il suono della mia carne mentre veniva incisa e quello degli schiaffi che mi dava il medico per costringermi a rimanere sveglio ogni volta che ero sul punto di svenire»
Dopo l’operazione fu mandato a casa, ma la sua famiglia non aveva i soldi per comprare le medicine. Per diversi mesi Ji visse con un dolore intenso e costante, con il senso di colpa di essere diventato un peso per la sua famiglia, e pensò più volte di uccidersi. Un giorno provò ad andare a cercare del riso superando il confine con la Cina, ma fu scoperto dai nordcoreani, che gli dissero che era una vergogna per la Corea del Nord perché era disabile. Poi lo torturarono. Ji decise così di scappare dal paese, insieme al fratello.
Dopo avere salutato il padre, andò verso nord e superò il fiume Tumen, al confine tra Corea del Nord e Cina. Qui rischiò di annegare ma fu salvato dal fratello. Attraversò buona parte della Cina, verso sud, sfruttando una rete ferroviaria in disuso, attraversò il Laos e la Birmania, fino ad arrivare in Thailandia, tutto con le stampelle e in condizioni di salute estremamente precarie: «Sentivo così tanto dolore che volevo morire, letteralmente. Riuscivo solo a piangere e odiare il fatto di essere nato in Corea del Nord». Ji arrivò in Corea del Sud nel luglio 2006, in aereo, 10 anni dopo il terribile incidente del treno. I medici sudcoreani lo curarono e il governo gli diede delle protesi. Nel frattempo erano scappate dalla Corea del Nord anche la madre e la sorella. Il padre era stato torturato dai soldati nordcoreani che volevano sapere dove fossero i suoi figli, ed era morto per le ferite riportate.
Dopo essersi ripreso, Ji fondò un gruppo chiamato Now, Action and Unity for Human Rights, che cominciò ad aiutare i profughi nordcoreani in Cina portandoli in Corea del Sud e a trasmettere messaggi radio in Corea del Nord su temi come libertà e democrazia. Oggi Ji ha 35 anni, sta studiando l’inglese e ha cominciato a viaggiare negli Stati Uniti per raccontare della situazione dei diritti umani in Corea del Nord. E ieri notte ha ricevuto uno degli applausi più forti e rumorosi di tutto il discorso sullo stato dell’unione di Trump, da tutto il Congresso degli Stati Uniti.