La grande macchia di petrolio nel Mar Cinese è triplicata
La perdita dalla petroliera iraniana affondata copre ormai più di 300 chilometri quadrati e minaccia gli ecosistemi marini: e non sappiamo come rimuoverla
Nel Mar Cinese la grande macchia di idrocarburi causata dall’affondamento della petroliera iraniana Sanchi – avvenuto al largo della costa orientale della Cina – continua a ingrandirsi ed è ormai uno dei più gravi disastri ambientali di questo tipo degli ultimi anni. Secondo l’Agenzia oceanica statale cinese, nell’arco di circa una settimana l’estensione della macchia di petrolio, che si è divisa in tre, ha complessivamente raggiunto i 332 chilometri quadrati. La Sanchi trasportava circa 136mila tonnellate di condensato (idrocarburi leggeri prodotti con il gas e altri oli di produzione), tossico per la fauna marina e difficile da separare dall’acqua per procedere alla sua rimozione.
A inizio mese la petroliera stava trasportando un carico proveniente dall’Iran quando si è scontrata con il mercantile CF Crystal di Hong Kong, subendo considerevoli danni. La nave iraniana è andata a fuoco ed è bruciata per quasi una settimana, prima di inabissarsi. Le autorità cinesi sono intervenute alla ricerca dei sopravvissuti e per cercare di evitare il disastro ambientale. I soccorritori sono riusciti a recuperare i corpi di tre sole persone delle 30 di origini iraniane a bordo della petroliera, in seguito hanno trovato i corpi di due marinai bengalesi che facevano sempre parte dell’equipaggio.
Dal giorno dell’incidente la Cina ha continuato a monitorare la macchia di idrocarburi, ma senza riuscire ad attuare interventi efficaci per arginarne l’espansione. Nella notte tra domenica 21 e lunedì 22 gennaio, sul posto c’erano tre navi da ricognizione della Guardia Costiera cinese, con lo scopo di verificare estensione ed effetti sulla vita marina della grande chiazza.
Secondo gli esperti, è la prima volta che si verifica una perdita di questa entità di condensato, ed è quindi difficile fare stime e previsioni sull’impatto ambientale. Semplificando, i condensati si trovano allo stato gassoso nei pozzi: quando vengono estratti, al cambiare della temperatura e della pressione, condensano e diventano liquidi. Il prodotto che si ottiene dopo l’estrazione ha caratteristiche simili a quelle del petrolio grezzo, ma ha una composizione molecolare diversa (benché alcune aziende petrolifere lo classifichino come una variante del normale petrolio).
Il condensato è formato da alcani, composti organici costituiti da carbonio e idrogeno. Il più comunque e conosciuto alcano è il metano, ma fanno parte della stessa famiglia anche altri composti come l’etano e il propano. Il condensato viene utilizzato nelle raffinerie nei processi di lavorazione degli idrocarburi, per ottenere prodotti di vario tipo per la combustione e per l’industria chimica. È altamente infiammabile e ha bassa densità, quindi tende a galleggiare sulla superficie dell’acqua come fa la maggior parte degli oli.
Recuperare il condensato finito in mare è estremamente difficile. I sistemi utilizzati con il comune petrolio, come l’uso di galleggianti per arginarne la diffusione, non sono raccomandabili perché il condensato è altamente infiammabile e quindi difficile da gestire in sicurezza nella sua fase di recupero. Non è nemmeno chiaro quanto del condensato stesso rimanga evidente nelle grandi macchie e quanto si disciolga, coprendo distanze ancora più ampie che mettono a rischio gli ecosistemi marini. Alcuni ricercatori ritengono che ciò non possa avvenire, perché il condensato è scarsamente solubile in acqua.
Le incertezze sono dovute alla mancanza di studi approfonditi sugli effetti del condensato sull’ambiente, carenza dovuta in parte al fatto che non ci sono stati finora grandi incidenti in mare con carichi di questo tipo. Si sa comunque che questi idrocarburi hanno effetti tossici sui coralli.
La speranza delle autorità cinesi e dei ricercatori che se ne stanno occupando è che le chiazze di condensato mantengano uno spessore di pochi millimetri sulla superficie dell’acqua, in modo da rendere più probabile l’evaporazione dei componenti più tossici. Non essendoci precedenti significativi è però difficile prevedere con certezza gli effetti inquinanti e sugli ecosistemi marini nelle prossime settimane.