Cosa sarà dei curdi in Siria
Sono tra i pochi vincitori della guerra finora ma potrebbe non durare, come dimostra il trambusto che si è creato negli ultimi giorni attorno alla città siriana di Afrin
di Elena Zacchetti
La Turchia ha ordinato oggi ai suoi soldati che si trovano al confine turco-siriano di aumentare le misure di sicurezza “al più alto livello”, in vista di una possibile operazione militare per prendere il controllo di Afrin, una città del nord-ovest della Siria da tempo sotto il controllo dei curdi. L’ordine non è stato improvviso: da almeno due giorni tv e giornali turchi stanno parlando di una possibile offensiva oltre confine, in Siria, mostrando spostamenti di truppe e mezzi corazzati. Non è una novità nemmeno che tra turchi e curdi ci sia dell’ostilità: la Turchia accusa da tempo i curdi siriani di avere legami profondi con i curdi turchi del PKK, organizzazione che il governo turco considera terrorista. E quindi, cos’è cambiato negli ultimi giorni? E perché quello che sta succedendo ad Afrin è importante per capire quale potrebbe essere la sorte di un ipotetico stato curdo?
Ad Afrin si stanno intrecciando amicizie, rivalità e inimicizie tra i diversi gruppi e stati coinvolti nella guerra siriana. Non ci sono solo due schieramenti che combattono l’uno contro l’altro, ma molti fronti sovrapposti, e questo rende le cose più complicate. Partiamo dall’inizio.
La dura reazione della Turchia è la diretta conseguenza di una dichiarazione fatta domenica scorsa dalla coalizione militare anti-Stato Islamico (o ISIS) guidata dagli Stati Uniti. La coalizione aveva annunciato un piano per l’addestramento di 30mila uomini che avrebbero dovuto far parte di una nuova “Guardia di frontiera” addetta a sorvegliare i confini dei territori controllati dalle Forze democratiche siriane (SDF), cioè una coalizione di arabi e curdi – ma a netta prevalenza curda – alleata degli Stati Uniti nella guerra contro lo Stato Islamico. Il compito principale della nuova Guardia di frontiera, aveva detto la coalizione, doveva essere evitare l’infiltrazione di miliziani dello Stato Islamico nel territorio delle SDF. 30mila uomini però non sono pochi. La Turchia aveva interpretato la mossa della coalizione come un tentativo statunitense di sostenere le ambizioni curde di creazione di un proprio stato. Il governo guidato dal presidente Recep Tayyip Erdoğan si era infuriato e aveva detto che se gli Stati Uniti non avessero tolto il loro appoggio ai curdi, la Turchia sarebbe intervenuta militarmente nei territori delle SDF in Siria.
Dopo la durissima reazione dei turchi, il dipartimento di Stato americano ha ritrattato in parte le precedenti dichiarazioni e ha negato di voler creare una nuova forza armata al confine tra Siria e Turchia. La crisi però non è del tutto finita.
Per la Turchia la creazione di uno stato curdo dentro ai suoi confini o appena al di là è da sempre considerata una questione di sicurezza nazionale. Già in passato il governo turco aveva mostrato di voler dar seguito alle minacce di intervento militare in Siria in funzione anti-curda: nell’agosto 2016 soldati turchi alleati all’Esercito libero siriano, una coalizione di gruppi ribelli di diverso tipo, erano entrati nel nord della Siria per riprendere alcuni territori controllati dallo Stato Islamico ma soprattutto per frenare l’avanzata dei curdi a ovest del fiume Eufrate. Oggi la situazione sembra potersi ripetere: la Turchia sta dicendo di voler agire per anticipare la creazione di una forza militare in grado di controllare i confini del territorio curdo, cioè per evitare che si renda effettiva una delle tradizionali prerogative di uno stato. Agire in anticipo però comporta parecchi rischi e soprattutto potrebbe provocare un gran casino nel nord della Siria.
La prima questione da tenere a mente è quella dei rapporti tra Turchia e Stati Uniti, sulla carta paesi alleati (entrambi membri della NATO) ma nella realtà sempre più distanti. Da tre anni gli Stati Uniti appoggiano le SDF nella guerra contro lo Stato Islamico con risultati più che soddisfacenti, visto che l’ISIS ha perso molti dei territori che controllava alla fine del 2014. Allo stesso tempo gli americani non hanno mai rinunciato alla loro alleanza con la Turchia, che continua a essere considerata un loro alleato imprescindibile in Medio Oriente. Il problema è che finora gli americani hanno tenuto un piede in due scarpe, come si dice, infilandosi in una situazione che sembra essere sempre meno sostenibile. Come ha scritto su Twitter l’analista Sam Heller, «in qualche maniera dobbiamo decidere» da che parte stare.
2a. We’re still on this have-it-both-ways approach to U.S. ties with the YPG and Turkey, instead of grappling with the fact that these dueling relationships are in zero-sum contradiction. On some level, we have to choose. pic.twitter.com/xisEMedaKT
— Sam Heller (@AbuJamajem) 18 gennaio 2018
Ad aggiungere confusione all’intera situazione ci ha pensato proprio il governo degli Stati Uniti. Ieri il segretario di Stato americano Rex Tillerson ha detto che gli Stati Uniti manterranno una presenza militare indefinita in Siria. Ha aggiunto che tra i loro obiettivi non c’è più solo la sconfitta dello Stato Islamico, ma anche l’eliminazione di al Qaida, la riduzione dell’influenza dell’Iran e il raggiungimento di un accordo di pace che escluda il presidente siriano Bashar al Assad. Tutti obiettivi molto ambiziosi e difficilmente realizzabili: sia perché gli Stati Uniti in Siria hanno solo duemila soldati, e fare quelle cose senza soldati propri non è per niente facile; sia perché la situazione della guerra siriana sembra suggerire che non ci potrà essere una Siria senza Assad e l’Iran, almeno nel prossimo futuro. Se l’amministrazione statunitense dovesse confermare di voler seguire la nuova strategia illustrata da Tillerson, gli americani cercheranno probabilmente di collaborare con gli alleati che finora si sono dimostrati più disponibili e affidabili, cioè i curdi. A quel punto le tensioni tra Stati Uniti e Turchia potrebbero aumentare ancora di più.
La seconda questione da tenere a mente nell’ipotesi di un attacco turco a Afrin riguarda i rapporti tra Turchia e Russia. Si pensa che la Russia abbia centinaia di suoi soldati ad Afrin e che controlli lo spazio aereo della zona. Questo significa che sarebbe praticamente impossibile per i turchi attaccare Afrin senza il consenso del governo russo, che però finora si è dimostrato relativamente collaborativo con i curdi. Oggi c’è stato un incontro tra rappresentanti russi e turchi a Mosca proprio per parlare dell’operazione ad Afrin, ma non è chiaro se sia stato deciso qualcosa. Intanto però la situazione si è complicata ulteriormente, perché il regime di Bashar al Assad ha fatto sapere che se dovesse iniziare un’operazione militare turca ad Afrin, le sue forze non esiteranno ad abbattere gli aerei nemici.
Finora i curdi sono emersi come uno dei pochi gruppi vincitori della guerra siriana: negli ultimi anni hanno conquistato molti territori nel nord e nell’est della Siria, su cui hanno imposto di fatto le loro strutture di autogoverno. È difficile dire però cosa potrebbe succedere ora. Il territorio curdo è minacciato da nord dalla Turchia, che sembra non voler accettare in alcuna maniera l’esistenza di uno stato curdo al di là dei suoi confini, ma anche da sud, dove le forze del regime di Assad e i loro alleati potrebbero a un certo punto decidere di iniziare un’offensiva militare per riprendere il controllo di tutta la Siria (una cosa che Assad ha detto in diverse occasioni di voler fare). Allo stesso tempo non è chiaro quale sarà la posizione degli Stati Uniti e della Russia di fronte a questo ingarbugliamento di alleanze e inimicizie: gli americani per esempio hanno detto di non voler appoggiare il progetto curdo di creazione di uno stato proprio. Quello che sta succedendo negli ultimi giorni ad Afrin è un po’ la sintesi di tutto questo, ed è difficile prevedere come finirà.