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  • Domenica 14 gennaio 2018

Mai così tanta gente al lavoro in Italia

Ma i nuovi posti di lavoro sono quasi tutti precari: cosa mostrano gli ultimi dati sul lavoro, tra bicchieri mezzi pieni e mezzi vuoti

(ANSA/ANNAMRIA LOCONSOLE)
(ANSA/ANNAMRIA LOCONSOLE)

Martedì l’ISTAT ha pubblicato il suo ultimo rilevamento su occupati e disoccupati, che mostra come lo scorso novembre lavoravano in Italia 23 milioni 183 mila persone, il numero più alto dal 1977, quando iniziano le serie storiche dei suoi rilevamenti. Significa che mai così tante persone hanno lavorato nel nostro paese, un risultato che sia il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni che il segretario del PD Matteo Renzi hanno celebrato.

I dati mostrano anche un calo della disoccupazione e un calo della disoccupazione giovanile. Sono buone notizie, ma non tutti condividono l’entusiasmo di governo e PD. Sindacati e opposizioni fanno notare che i nuovi posti di lavoro sono quasi tutti instabili e precari e che il tasso di disoccupazione in Italia è ancora tra i più alti in Europa (soltanto Spagna e Grecia vanno peggio di noi). Sono davvero un traguardo storico questi dati? E cosa ci dicono sul mondo del lavoro italiano?

Un po’ di contesto
Prima di proseguire è bene avere chiaro di cosa stiamo parlando. Gli “occupati” sono il totale degli italiani che lavorano, definiti dall’ISTAT come coloro che nella settimana di riferimento hanno lavorato almeno un’ora (torneremo tra poco su questa definizione). Il “tasso di occupazione”, quindi, è la percentuale di coloro che sono “occupati” sul totale della popolazione in età attiva, definita come tutti coloro che hanno tra i 15 e i 64 anni. Al record degli occupati, più di 23 milioni, corrisponde anche il record del tasso di occupazione, arrivato per la prima volta al 58,4 per cento. Nel 1977, primo anno per cui sono disponibili le serie storiche, il tasso di occupazione era al 53,8 per cento. L’aumento del tasso di occupazione nel corso degli ultimi decenni, scrive l’ISTAT, è stato sostanzialmente costante ed è dovuto all’aumento dell’occupazione femminile. L’Italia è sempre stato un paese dove le donne hanno lavorato poco e solo negli ultimi decenni questa tendenza si è finalmente invertita.

Gli occupati crescono, i disoccupati calano
Torniamo ai dati degli ultimi giorni. Il più citato dai sostenitori del governo e del PD è la crescita dei posti di lavoro dal settembre 2013, quando gli occupati toccarono il loro livello più basso negli ultimi anni. Da allora i governi che si sono succeduti (in particolare quelli Renzi e Gentiloni) hanno assistito alla creazione di un milione di nuovi posti di lavoro. Un terzo di questo milione di posti di lavoro è stato creato soltanto nell’ultimo anno, durante il quale si è verificata la prima vera ripresa economica dall’inizio della crisi, con il PIL che è cresciuto dell’1,5 per cento. Come ha scritto sul Corriere della Sera il giornalista ed esperto di lavoro Dario Di Vico: «La ripresa comincia “a scaricare a terra” i suoi effetti benefici». È un risultato positivo e in parte inaspettato, visto che molti temevano che quella italiana sarebbe stata una “jobless recovery”, cioè una ripresa economica che non produce nuova occupazione e non riesce a riassorbire la disoccupazione creata dalla crisi.

Invece i posti di lavoro sono aumentati, mentre la disoccupazione scende leggermente ma in modo stabile: oggi è all’11 per cento, rispetto al record del 13 per cento toccato nel novembre 2013. Qui però cominciano i problemi dei nuovi dati ISTAT: nel caso della disoccupazione, per esempio, mostrano che nell’ultimo anno il calo si è praticamente arrestato: tra novembre 2016 e novembre 2017 è scesa di appena lo 0,1 per cento, anche a causa della riduzione del numero di lavoratori inattivi. La disoccupazione giovanile è ancora la più alta d’Europa, dopo Grecia e Spagna, ma è diminuita in maniera abbastanza sensibile rispetto ai record precedenti. Oggi è al 32,7 per cento, mentre negli anni passati raggiunse punte superiori al 40 per cento (ma attenzione: visto che i giovani che lavorano o che cercano lavoro sono pochi, anche piccoli cambiamenti in numeri assoluti sono sufficienti a produrre grosse variazioni percentuali).

Una parentesi va fatta sull’occupazione femminile che, dalla scorsa estate, continua a essere al livello più alto dal 1977. Significa che mai così tante donne hanno lavorato nel nostro paese. La ragione principale di questo aumento sembra essere la riforma delle pensioni Fornero, che ha allungato molto l’età pensionabile delle donne, in particolare nel settore privato. Una popolazione che invecchia, unita a una riforma che sposta più avanti l’età pensionabile, infatti, può produrre un aumento dell’occupazione.

È un’occupazione precaria?
Torniamo ai dati dell’ultimo anno: come abbiamo visto tra novembre 2016 e novembre 2017 sono stati creati ben 345 mila posti di lavoro. Questi 345 nuovi posti di lavoro sono il frutto della crescita dei posti di lavoro da dipendente e del calo di quelli autonomi. I primi sono aumentati di quasi mezzo milione, ma tra questi appena 48 mila sono contratti a tempo indeterminato (quello a tutele crescenti introdotto dal Jobs Act). Quasi nove su dieci invece sono regolati da un contratto a termine. Il saldo tra contratti a tempo determinato e indeterminato migliora se invece che l’ultimo anno prendiamo in considerazione gli ultimi quattro anni, cioè dall’inizio del governo Renzi nel febbraio 2014, includendo così anche il periodo delle decontribuzioni, quando chi assumeva a tempo indeterminato otteneva uno scontro fiscale della durata di tre anni (le decontribuzioni sono rimaste in vigore a pieno regime per tutto il 2015 e sono costate circa 20 miliardi di euro). In questo periodo poco meno di metà dei nuovi posti di lavoro era a tempo indeterminato, 481 mila, e circa il 60 per cento era a tempo determinato, 659.

Secondo un articolo pubblicato sul Foglio questi numeri dimostrano che l’aumento dei contratti precari è stato contenuto con successo. I critici, come i sindacati, invece sottolineano che appena sono terminate le decontribuzioni, i posti precari sono tornati ad aumentare sensibilmente (come abbiamo visto, nell’ultimo anno 9 su 10 dei posti di lavoro dipendente creati sono a tempo determinato). Secondo loro questi lavori precari sono molto spesso a basso valore aggiunto, con stipendi inferiori alla media e condizioni poco soddisfacenti. Per sottolineare questo concetto diversi critici del governo hanno ricordato che l’ISTAT considera occupato anche chi lavora soltanto un’ora a settimana, ma non è un trucco: è la definizione di “occupato” adottata a livello internazionale. Inoltre l’istituto di statistica ricorda che la percentuale di chi lavora così poco è sostanzialmente trascurabile.

È senza dubbio vero, però, che parte dei nuovi lavori sono part time o comunque a bassa retribuzione. Molti dei nuovi occupati sono probabilmente “sottoccupati”, persone che vorrebbero un’occupazione a tempo pieno, ma che sono costretti ad accettare un lavoretto.

Questo fenomeno potrebbe spiegarsi col fatto che durante la fase iniziale di una ripresa economica le aziende preferiscono ancora non sobbarcarsi il peso di contratti a tempo indeterminato, dato che non sanno se quella ripresa è destinata a consolidarsi in futuro. Il problema è che per il momento non sappiamo molto di questi lavoratori precari. Il sospetto che quelli che hanno ottenuto siano lavori di bassa qualità è forte tra gli esperti, ma come ricorda Di Vico: «Ci sarebbe bisogno di saperne di più su questo 90 per cento [di contratti a tempo determinato] per capire la durata dei contratti, i livelli di retribuzione, la coerenza del profilo professionale con la formazione ricevuta e via di questo passo. Tutti questi elementi sarebbero utili per arrivare alla conclusione se ci troviamo di fronte a una modifica strutturale del nostro mercato del lavoro o se il predominio del contratto a termine è dovuto a una serie di anomalie/ritardi/incomprensioni tutto sommato emendabili».

Un altro dato interessante è il calo nel numero dei lavoratori autonomi, che sono scesi di 150 mila in un anno. In un’intervista a Repubblica, il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha attribuito questo calo al Jobs Act e alle riforme del lavoro del suo governo: «Abbiamo abolito i co.co.pro e introdotto norme per favorire il passaggio ai contratti a tutele crescenti marcando i confini tra i rapporti di lavoro subordinati e quelli effettivamente indipendenti» e quindi: «Sono diminuiti solo i lavoratori autonomi; vuol dire che c’erano tante false partite Iva che non si sono più ricostruite». In altre parole, secondo il ministro, il nuovo contratto a tutele crescenti ha contribuito a diminuire il numero di quei lavoratori che sono di fatto dei dipendenti con orari di lavoro e obbligo di presenza, ma che per risparmiare sulle tasse e per ottenere maggiore flessibilità sono pagati tramite partita IVA.

Non tutti però sono d’accordo. Il calo nel numero dei lavoratori autonomi dura oramai da alcuni anni e lo scorso autunno Emilio Reyneri, professore di sociologia del lavoro all’Università di Milano Bicocca, ha pubblicato un’analisi in cui attribuisce il calo alla chiusura di molte attività artigianali e commerciali. Reyneri ha notato che il numero dei professionisti intellettuali senza dipendenti (la categoria che comprende anche le false partite IVA) è aumentato tra 2004 e 2016 (più 24 per cento). Sono abbondantemente diminuiti sono «i negozianti e gli artigiani che sempre più sono stati messi fuori mercato dalla concorrenza di super e ipermercati», scrive Reyneri.

Secondo Reyneri è possibile che l’effetto di cui parla Poletti abbia una parte in questa diminuzione: «All’impossibilità di stipulare nuovi rapporti di collaborazione è molto probabile si debba parte del più recente aumento dei lavoratori dipendenti a tempo determinato». Ma per l’ultimo anno, novembre 2016-novembre 2017, mancano ancora i dati per giungere a conclusioni più definitive. Soltanto quando l’ISTAT pubblicherà le varie tipologie di lavoro autonomo che sono calate potremo sapere se nell’ultimo periodo i lavoratori autonomi, tra cui anche le finte partite IVA, hanno visto un vero calo.