Una vita da Roberto Maroni
Ascesa e caduta (?) del presidente della regione più ricca d'Italia, quattro volte ministro, che questa settimana ha dato una svolta alla sua carriera politica
di Davide Maria De Luca – @DM_Deluca
È stata una settimana difficile per il presidente della Lombardia, Roberto Maroni. Lunedì ha annunciato a sorpresa la sua intenzione di non ricandidarsi alle elezioni regionali del prossimo 4 marzo, una competizione che, secondo gran parte degli osservatori, avrebbe vinto con facilità. Ha detto di aver preso la decisione per “ragioni personali” – alcuni pensano che possa esserci di mezzo il processo in cui è accusato di aver fatto pressioni per far assumere a EXPO 2015 una sua collaboratrice – ma ha fatto capire di essere più che disponibile a ricevere altri incarichi politici in futuro. Con la possibilità sempre più concreta di un futuro governo di coalizione con il centrodestra nel ruolo di partner forte, in molti hanno pensato che Maroni si riferisse alla possibilità di diventare ministro o addirittura presidente del Consiglio. Una specie di Paolo Gentiloni del centrodestra, visto che il leader naturale di quello schieramento – Silvio Berlusconi – è ancora interdetto dagli incarichi istituzionali.
Se questa era la sua intenzione, però, Maroni ha dovuto ricredersi rapidamente. Matteo Salvini, il segretario della Lega e suo principale rivale interno al partito, è stato netto: «Se lasci il tuo incarico in Regione Lombardia, che vale molto di più di tanti ministeri, evidentemente in politica non puoi più fare altro». Poche ore dopo anche Berlusconi si è adeguato utilizzando un tono insolitamente duro. Per Maroni, ha detto, «è impensabile che si possano pensare dei ruoli politici e tanto meno dei ruoli nel futuro governo». Maroni ha risposto dicendo di non essere interessato ad alcun ruolo politico ma soltanto alla sua nuova vita lontano dalla politica. Al direttore del Foglio Claudio Cerasa ha raccontato che gli piacerebbe tornare a esercitare il suo lavoro di avvocato penalista, ma anche impegnarsi nell’aiutare le startup a rapportarsi con la pubblica amministrazione.
Non tutti credono a questa svolta. Lo stesso Cerasa ha scritto che non ci si può fidare del tutto delle parole con cui Berlusconi ha escluso ogni possibilità di ruoli di governo per il presidente della Lombardia. Se il centrodestra otterrà un buon risultato alle prossime elezioni e avrà bisogno di trovare un candidato presidente del Consiglio non troppo sgradito a eventuali alleati del centrosinistra, il nome di Maroni potrebbe di nuovo tornare spendibile. In attesa di quel momento, però, la brillante carriera politica di Maroni – che in passato ha occupato per due volte il ministero più importante, quello dell’Interno, è stato vicepresidente del Consiglio, ministro del Lavoro e segretario della Lega Nord – sembra aver subito una pesante battuta d’arresto.
Non è la prima volta che Maroni si trova in una situazione simile: messo all’angolo del partito che ha contribuito a fondare e senza un chiaro futuro politico. Accadde la prima volta tra la fine del 1994 e l’inizio del 1995, quando Umberto Bossi decise di togliere la fiducia al primo governo Berlusconi. Maroni all’epoca era ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio, oltre che uno dei fondatori della Lega, storico braccio destro e uomo di fiducia di Bossi. Maroni si oppose alla sfiducia e divenne il principale avversario interno del segretario. Bossi minacciò espulsioni di massa e decine di parlamentari abbandonarono il movimento per passare a Forza Italia. La Lega sembrava a un passo dalla disintegrazione. Al congresso del febbraio 1995, quando Maroni salì sul palco, venne accolto dai fischi della sala. Nel suo discorso di risposta, Bossi fu feroce: «A Roberto per anni ho scaldato il latte tutte le mattine, ma è il nostro braccio debole e va amputato». Quel giorno stesso giorno Maroni annunciò le sue dimissioni dal partito e dal Parlamento.
Nonostante il modo spettacolare in cui i due si erano lasciati, anni dopo Bossi raccontò che quello fu uno dei momenti più sofferti della sua carriera politica. I due erano amici e compagni di avventure politiche da prima ancora che nascesse la Lega, quando Bossi decise di creare una lega di movimenti autonomisti del Nord Italia dopo aver visto in università un volantino dell’Union Valdôtaine. Maroni raccontò anni dopo: «Se Bossi è il papà della Lega, io ne sono la mamma». Quando conobbe Bossi, Maroni era un giovane studente di Legge, iscritto al partito di estrema sinistra Democrazia Proletaria; girava per Varese, la città dov’era nato nel 1955, con il Manifesto sottobraccio. Maroni ha ricordato che al primo comizio che tenne con Bossi c’erano solo quattro persone, di cui due erano agenti della Digos.
Un altro aneddoto delle loro avventure giovanili è passato alla storia della cronaca politica italiana. Una notte Maroni, che era l’unico dei due a possedere una macchina, aveva lasciato Bossi lungo una tangenziale dove il futuro segretario della Lega avrebbe dovuto dipingere uno slogan indipendentista su un muro. Per non destare sospetti, Maroni sarebbe tornato a prenderlo soltanto a lavoro concluso, dopo aver fatto un lungo giro con l’automobile. Arrivato sul luogo dell’appuntamento, Maroni vide Bossi venirgli incontro correndo. Entrò in macchina trafelato e disse che la polizia lo aveva sorpreso e gli aveva persino “sparato addosso”. Entrando in macchina si dimenticò che il sedile del passeggero era stato rimosso dalla mamma di Maroni, cadde e finì con il rovesciarsi addosso il secchio di vernice.
Nel corso degli anni Ottanta, le loro avventure notturne si trasformarono in un movimento politico prima chiamato Lega Lombarda e poi, alla fine del decennio, ribattezzato Lega Nord. Maroni era il numero due del partito, la faccia più presentabile, inviata a trattare con i futuri partner di governo. Mentre Bossi teneva comizi in canottiera e mostrava il dito medio, Maroni si presentava in giacca e cravatta. Fu lui a condurre le trattative con Berlusconi in vista delle elezioni del 1994 e poi a ottenere gli incarichi più prestigiosi frutto di quell’accordo: ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio.
Separarsi da Maroni nel febbraio del 1995 fu come abbandonare un “fratello minore”, raccontò Bossi anni dopo. Per fortuna di entrambi, la separazione non durò a lungo. Alle elezioni amministrative del 1995 la Lega andò benissimo. Il partito non sembrava più sul punto di scomparire. Separarsi da Berlusconi aveva portato la Lega al record storico di consensi. Pochi mesi dopo Maroni pubblicò una lettera pubblica in cui scrisse che si era sbagliato e che Bossi aveva avuto ragione. Il segretario lo riaccolse nel partito.
Il 1995 e poi più ancora il 1996 furono gli anni della Lega secessionista, in cui Bossi celebrò l’indipendenza della Padania, lo stato immaginario che comprende gran parte del Nord Italia, con cerimonie semi-religiose sulle rive del Po. Maroni, che su questi temi era sempre stato moderato e prudente, capì che se voleva conservare un ruolo centrale all’interno del partito doveva cavalcare il nuovo corso. In breve divenne il capo e il coordinatore delle Guardie Padane e delle Camicie Verdi, le organizzazioni con accenni paramilitari che raccoglievano le teste più calde del partito. Come scrisse il giornalista Michele Serra, in quei giorni: «Mi domando sempre se, in mezzo alle truppe di fanatici e di esaltati, il ruolo del commilitone moderato sia da considerare con rispetto, perché funge da calmiere, oppure con preoccupazione, perché fa da copertura “per bene” alle peggiori porcherie. Non avendo una risposta certa, sospendo il giudizio su Roberto Maroni». Fu in quell’epoca che, durante una perquisizione della sede della Lega Nord ordinata dalla procura di Verona nell’ambito di un’indagine sulle Camicie Verdi, Maroni ebbe una colluttazione con gli agenti di polizia e, caduto a terra – secondo la leggenda – morse il polpaccio di un agente.
Dopo cinque anni di governo di centrosinistra, tra il 1996 e il 2001, la Lega Nord tornò ad allearsi con Berlusconi. I risultati non furono brillanti come quando la Lega era andata da sola, ma almeno erano tornati al governo. Maroni divenne ministro del Lavoro e fece approvare una serie di importanti liberalizzazioni del mercato del lavoro: la famosa legge Biagi, dal nome del giuslavorista e consulente del ministero del Lavoro, Marco Biagi, ucciso quell’anno dalle Nuove Brigate Rosse. Maroni introdusse anche un’importante riforma per alzare l’età pensionabile che, per certi versi, avrebbe anticipato quella Fornero. Il cosiddetto “scalone Maroni”, però, fu abolito dal successivo governo di centrosinistra prima di entrare in vigore.
Dopo la breve parentesi del secondo governo Prodi tra 2006 e 2008, Lega e PdL tornarono al governo e Maroni occupò per la seconda volta la poltrona di ministro dell’Interno. Il suo mandato è ricordato soprattutto per i due “pacchetti sicurezza”, una serie di norme che aumentavano i poteri dei sindaci nella gestione dell’ordine pubblico e che introducevano l’uso sistematico dei militari per mantenere l’ordine pubblico nelle grandi città (la famosa operazione “Strade Sicure”). Maroni fu durissimo nei confronti dell’immigrazione, autorizzando i respingimenti dei barconi in collaborazione con la guardia costiera libica. In quegli anni, le autorità italiane non si accertavano se a bordo delle navi rimandate in Libia ci fossero persone che avevano diritto a richiedere asilo e per questo l’Italia fu condannata dalla Corte europea per i diritti umani.
La fine dell’ultimo governo Berlusconi, nel dicembre del 2011, coincise quasi esattamente con il più grave scandalo nella storia della Lega Nord. Nel marzo del 2012 il tesoriere della Lega Francesco Belsito finì sotto indagine con l’accusa di aver sottratto fondi del finanziamento pubblico destinati al partito. Si scoprì che Belsito finanziava le spese personali di Umberto Bossi, della sua famiglia e di una serie di personaggi e amici che i giornali definirono il “cerchio magico” (i giornali si soffermarono molto sui dettagli di uno degli investimenti fatti da Belsito: l’acquisto di diamanti della Tanzania). Il 5 aprile Bossi annunciò le dimissioni dall’incarico di segretario federale, che ricopriva dalla fondazione del partito. Maroni si mise a capo della rivolta dei militanti che aveva costretto Bossi e gli altri membri del cerchio magico a dimettersi e poche settimane dopo fu eletto segretario della Lega Nord, il secondo nella storia del partito. Bossi fu relegato al ruolo cerimoniale di presidente. La situazione del 1995 si era ribaltata.
Maroni, alla guida del partito, fece cadere la giunta lombarda guidata da Roberto Formigoni e riuscì a ottenere per sé stesso la candidatura a presidente per le elezioni anticipate del 2013. Riuscì a vincerle, battendo di quattro punti il candidato del centrosinistra Umberto Ambrosoli. A settembre dello stesso anno mise in atto la decisione che aveva già annunciato mesi prima: quella di abbandonare la segreteria per concentrarsi sulla gestione della regione. A dicembre, per la prima volta, la Lega tenne primarie tra gli iscritti che furono vinte da un giovane europarlamentare del partito, Matteo Salvini, ex capo dei comunisti padani dell’effimero Parlamento della Padania voluto da Bossi, dove Maroni era invece capo dei socialdemocratici padani. Salvini, con l’appoggio di Maroni, aveva battuto Bossi che aveva tentato, senza troppa convinzione, di riprendersi il partito. Quattro anni dopo, i rapporti si sono invertiti ancora una volta ed è stato Maroni ad essere, di fatto, messo fuori dal partito. Almeno per il momento.