La polizia di New York ha risolto un caso di stupro dopo 23 anni
La donna che lo subì fu accusata a lungo di aver mentito da un giornalista, che pensava si fosse inventata tutto perché la storia di violenza le avrebbe fatto comodo per il suo attivismo
Grazie a un’analisi del DNA la polizia di New York (NYPD) ha risolto dopo 23 anni un caso di stupro che il tabloid Daily News, all’epoca, aveva definito un’invenzione. L’editorialista Mike McAlary aveva infatti scritto diversi articoli mettendo in dubbio la credibilità della donna che aveva denunciato lo stupro, dicendo che aveva mentito perché era un’attivista femminista e dei diritti LGBTI: la storia della violenza, secondo McAlary, avrebbe dato forza a un discorso che la donna intendeva fare a una manifestazione organizzata contro la violenza verso le donne lesbiche.
Lo stupro avvenne alle 17.30 del 26 aprile del 1994: una donna che all’epoca aveva 27 anni e si era laureata a Yale, stava tornando verso casa con un sacchetto della spesa dopo aver fatto jogging. A Prospect Park, Brooklyn, New York, venne aggredita da dietro da uno sconosciuto che la trascinò lungo un sentiero e la violentò. La donna aveva fornito alla polizia una descrizione dettagliata del suo aggressore, ma inizialmente il NYPD aveva espresso pubblicamente dei dubbi sulla veridicità della storia.
La polizia, il giorno dopo la denuncia, aveva infatti tenuto una conferenza stampa e il portavoce del dipartimento, John Miller, aveva detto ai giornalisti che non c’erano prove fisiche a conferma dello stupro e che la storia della donna conteneva delle incongruenze. Quella stessa notte, dopo aver raccolto le prove, la polizia aveva però rivisto le proprie posizioni, dicendo che un’analisi di laboratorio aveva confermato che la donna era stata effettivamente violentata: nel suo corpo e sui suoi vestiti era stato prelevato dello sperma. Il commissario di polizia William J. Bratton aveva dunque presentato delle pubbliche scuse alla donna.
L’editorialista del Daily News Mike McAlary, subito dopo la notizia della denuncia, aveva scritto un articolo intitolato Rape Hoax the Real Crime (cioè “Il vero crimine è il finto stupro”) in cui, citando fonti di polizia, sosteneva che la donna si fosse inventata tutto perché, come attivista, un’aggressione subita avrebbe sostenuto la sua stessa militanza contro la violenza sulle donne. McAlary aveva anche precisato che la presunta vittima non presentava lividi o ferite e aveva scritto sarcasticamente che si era verificato un caso di «cavalleria» sulla scena di uno stupro.
Nonostante la ritrattazione della polizia e il ritrovamento delle prove a conferma dello stupro, McAlary continuò a scrivere articoli, uno il 29 aprile e un altro ancora il 13 maggio, in cui sosteneva che la violenza era un’invenzione. La donna aveva citato in giudizio il giornalista per diffamazione, ma il giudice aveva chiuso il caso: aveva cioè sostenuto che nonostante la donna non fosse mai stata nominata nei comunicati stampa era comunque una figura pubblica a causa del suo attivismo LGBTI e pertanto, come personaggio pubblico, aveva un onere della prova molto più pesante da portare in tribunale rispetto a quello di un privato cittadino. Una sentenza della Corte Suprema aveva stabilito che nel caso di storie false che riguardavano personaggi pubblici andava dimostrata l’intenzione reale del giornalista di diffamare, e cioè il fatto che il giornalista avesse pubblicato quell’informazione pur sapendo che era falsa. Per i privati cittadini era stato stabilito uno standard diverso: bastava dimostrare semplicemente che il giornalista era stato negligente nella ricerca della verità.
Nel frattempo, le indagini delle polizia non avevano portato a niente: la tecnologia disponibile a quel tempo non rendeva possibile separare i DNA di vittima e aggressore per cercare poi una possibile corrispondenza negli archivi del dipartimento. Alla fine il caso era stato dunque archiviato e McAlary, dopo aver vinto il Pulitzer per aver denunciato la brutalizzazione del cittadino haitiano Abner Louima da parte di alcuni agenti di polizia, era morto di cancro nel 1998.
Martedì 9 gennaio, dopo aver analizzato le vecchie prove con la nuova tecnologia a disposizione, Robert Boyce, capo dei detective della polizia di New York, ha fatto sapere di aver abbinato il DNA dell’aggressore con uno presente negli archivi della polizia: appartiene a uno stupratore seriale, James Edward Webb, condannato nel dicembre del 1997 a 75 anni di carcere per aver violentato dieci donne, sei negli anni Settanta e quattro a metà degli anni Novanta, durante un periodo di libertà vigilata. Boyce ha definito Webb un “selvaggio” e ha detto che il detenuto ha negato di essere il responsabile del caso di Prospect Park. Boyce ha anche detto che la donna coinvolta ha pianto di gioia quando le è stato detto che il suo caso era stato finalmente risolto.
L’avvocato che aveva seguito il caso della donna – che ora ha 51 anni, è sposata e ha due figli – ha affermato di provare emozioni molto contrastanti: «Dolore, confusione e sollievo». Ha chiesto al Daily News di scusarsi per come la sua cliente era stata raccontata e che «le storie dei giornali, che erano implacabili, giorno dopo giorno, erano state traumatizzanti quasi come lo stupro stesso». L’avvocato ha ripreso una frase che la donna stessa aveva pronunciato a quel tempo: «Ho avuto la sfortuna di essere stata violentata due volte: una volta nel parco e poi di nuovo sui media».