Breve lezione sul personaggio
È il mattone iniziale per la costruzione di ogni storia, ma può sgusciare e trasformarsi contro la volontà del suo autore
Inventare un personaggio è come mettersi un estraneo in casa. Non si sa mai come si comporterà. Qualche volta sarà educato, qualche altra insulterà gli ospiti, butterà la cenere sul pavimento o farà innamorare tutti quanti. Per quanto siano stati progettati e immaginati in precedenza, i personaggi vivono la loro vita nel corso della storia, e non sempre rispettano le intenzioni iniziali degli scrittori. È proprio questa incertezza a renderli vivi e a suscitare l’attenzione di chi legge.
Il dinosauro di Augusto Monterroso è un racconto di sette parole. Queste:
«Cuando despertó, el dinosaurio todavía estaba allí».
«Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì».
Il dinosauro fu scritto nel 1959 ed è considerato il più breve racconto della storia della letteratura. Perché è considerato un racconto e non un semplice periodo, per quanto asciutto e folgorante? La ragione è che contiene tutti gli elementi di una storia possibile: c’è una situazione iniziale (il risveglio) il cui equilibrio viene spezzato da un evento inaspettato (la presenza del dinosauro); c’è un qui e ora della narrazione che rimanda a un antefatto possibile (il dinosauro è ancora lì; quindi cos’è successo prima, quando il protagonista era ancora sveglio?); ci sono, soprattutto, due personaggi che hanno un rapporto ambiguo, lasciato all’immaginazione: colui che si sveglia è probabilmente il protagonista, mentre il dinosauro è l’antagonista o forse un alleato (o un aiutante magico nella formulazione del linguista russo Propp), non è dato sapere.
Si potrebbe anche forzare la lettura grammaticale e logica del periodo (lo ha suggerito Claudia, un’allieva del corso annuale, durante una lezione) e ipotizzare che il dinosauro sia il soggetto della principale e della subordinata. In questo modo la situazione iniziale diventerebbe:
«Quando il dinosauro si svegliò, era ancora lì».
Accettando questa interpretazione, Il dinosauro sarebbe ancora un racconto? La risposta è No, almeno non un racconto concluso. Potrebbe tutt’al più essere un inizio. Un semplice cambio di soggetto basta, cioè, a impoverire gli elementi che costituiscono la narrazione. Se il dinosauro fosse il soggetto anche della subordinata, queste sarebbero le conseguenze:
- scomparirebbe l’antagonista o l’aiutante magico;
- cambierebbe il quando e il dove, che verosimilmente diventerebbe una foresta preistorica;
- scomparirebbe la sorpresa e con essa l’elemento inquietante che mette in moto la storia;
- ma soprattutto, se il personaggio fosse un dinosauro invece che un uomo, la situazione diventerebbe banale, non sufficiente a suscitare il desiderio di sapere chi si è svegliato e perché ha un dinosauro in camera.
Perfino un racconto di sette parole, dove i vuoti (il non-detto) prevalgono di gran lunga sui pieni, non può rinunciare a mettere in scena personaggi e a tessere fra loro un sistema di relazioni. Il personaggio è – quasi sempre, forse sempre – il mattone iniziale di ogni narrazione possibile. E lo è a partire da quel complesso di attributi esteriori, psicologici, comportamentali e sociali che si possono sintetizzare nel concetto di caratterizzazione. In inglese personaggio si dice «character», «carattere», che deriva dalla parola greca che significa «impronta», ma che applicato alla psicologia delle persone si può definire come il modo in cui chiunque – tanto le creature reali quanto quelle immaginate – reagisce alle circostanze in cui si trova. Per imprimersi nell’immaginazione di chi legge, è necessario che il personaggio appaia.
Per questo, spesso, gli scrittori fanno entrare in scena i personaggi descrivendo il loro aspetto fisico nei dettagli. Vale per Harry Potter: «Harry aveva un viso sottile, ginocchia nodose, capelli neri e occhi verde chiaro. Portava un paio di occhiali rotondi, tenuti insieme con un sacco di nastro adesivo per tutte le volte che Dudley lo aveva preso a pugni sul naso. L’unica cosa che a Harry piaceva del proprio aspetto era una cicatrice molto sottile sulla fronte, che aveva la forma di una saetta». E vale per una creatura assurda come Odradek, il misterioso protagonista del racconto Il cruccio del padre di famiglia di Franz Kafka, che vive nelle soffitte, appare all’improvviso nei sottoscala e ride producendo un rumore di foglie secche: «Sulle prime ha l’aspetto di un rocchetto di filo, piatto e a forma di stella», fatto di «pezzi di filo tagliati, vecchi, annodati e confusi, di diverso tipo e colore». In entrambi gli esempi – ma si potrebbe continuare all’infinito – sono i dettagli a caratterizzare e a rendere memorabile un personaggio. C’è chi consiglia, prima di mettersi a scrivere, di elencare minuziosamente le caratteristiche fisiche del personaggio, per poi sbarazzarsene e concentrarsi sui pochi dettagli in cui l’universale di quel personaggio si annida e rivela. La scrittura, come la scultura per Michelangelo, consiste essenzialmente nel disfarsi del non necessario, di quello che è di troppo.
La caratterizzazione fisica è sempre, necessariamente, anche psicologica: «Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riuscire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo». La Lupa di Verga era «alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna – e pure non era più giovane – era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano». In entrambi i racconti, è il corpo a dare il nome, cancellando quelli originali e trasformando la Lupa e Malpelo nei personaggi di una narrazione sociale, prima che letteraria. Il nome rivela – e al contempo nasconde – la vera natura dell’individuo e quindi, se l’individuo è esemplare, dell’uomo.
Un personaggio può essere costruito anche a partire da ciò che sa, dalle sue competenze. Nei primi giorni di convivenza con Sherlock Holmes al 221B di Baker Street, Watson stila un elenco dei saperi (e delle lacune) del suo coinquilino: chimica, anatomia, letteratura scandalistica sono alcune delle voci (l’elenco si trova all’inizio di Uno studio in rosso). Oppure può apparire attraverso ciò che sa fare, le sue abilità. Diego Alatriste, il protagonista di Capitano Alatriste di Arturo Pérez-Reverte, è descritto dal suo paggio all’inizio del romanzo: «Non sarà forse stato l’uomo più onesto e neanche il più caritatevole della terra, ma era un uomo valoroso. […] Quando lo conobbi tirava a campare a Madrid, dove lo si poteva assoldare al prezzo di quattro maravedì per lavori di poco lustro, soprattutto come spadaccino per conto di chi non aveva l’abilità o il fegato necessari per risolvere da sé i propri contenziosi. Era estremamente abile quando si trattava di tirare di spada e maneggiava ancor meglio, con le finte della mano sinistra, la daga stretta e lunga che qualcuno chiamava ‘biscaglina’ e di cui erano soliti avvalersi gli attaccabrighe di professione». In poche righe la statura di Alatriste è tratteggiata come eroica e violenta insieme, intrecciandosi alle sorti della Spagna barocca, corrotta e decadente in cui si svolgono le sue avventure.
Un altro elemento di caratterizzazione è la voce, quindi il modo di parlare, il dialogo. Nel caso di Bartleby di Melville – ed è questa, forse, la ragione della sua bellezza – il protagonista non è caratterizzato da quello che fa e dice, ma da quello che non fa e non dice, e che si ostina a non fare e a non dire per tutto il racconto. Dopo un lungo preambolo, il mistero di Bartleby lo scrivano si manifesta così: «Sedevo appunto in tale atteggiamento quando lo chiamai, spiegandogli rapidamente quello che volevo facesse, cioè esaminare con me un breve atto. Immaginate la mia sorpresa, per non dire costernazione, quando senza uscire dal suo recesso Bartleby con voce singolarmente pacata e ferma, mi rispose: “Preferirei di no”». Il «preferirei di no» («I would prefer not to») si perpetua come un’eco inspiegabile e testarda fino all’ultima pagina.
L’ostinazione di Bartleby e la sua inspiegabile prevedibilità sono un’eccezione. In generale i personaggi riusciti, e le persone più affascinanti, non si fanno imprigionare dalla volontà dell’autore, tendono a sgusciare e a trasformarsi. Quando accade, si verifica quell’effetto prodigioso di cui scrive, tra gli altri, Edward Morgan Forster in Aspetti del romanzo: «I personaggi arrivano puntuali quando sono evocati, ma carichi di spirito ribelle. Avendo infatti un bel po’ di affinità con gente come noi, tentano di vivere la loro vita, e di conseguenza si trovano spesso a tramare contro lo schema principale del libro. “Scappano”, “prendono la mano”: sono creazioni dentro la creazione». Non chiedono il permesso, si comportano da estranei nella casa costruita per loro dagli scrittori, e mentre incominciano a vivere, animano la casa, il mondo della narrazione con la sua geografia, i suoi colori e le sue atmosfere.
Inizieranno a febbraio tre nuovi corsi serali della scuola di scrittura Belleville, chiamati “Scrivere di notte”. La terza edizione della Scuola annuale di Scrittura si terrà invece da novembre 2018 a giugno 2019.