L’orso polare di quel video virale forse non è morto per il cambiamento climatico
È più probabile che fosse malato, e per questo il National Geographic sta ricevendo critiche da biologi e Inuit
Nelle settimane prima di Natale sui social network è girato moltissimo un video che mostra un orso polare denutrito e molto magro, probabilmente vicino alla morte. Il video è stato girato lo scorso luglio sull’isola Somerset, nel territorio canadese di Nunavut, da Paul Nicklen, fotografo del National Geographic e attivista ambientalista; è stato poi diffuso dalla rivista il 7 dicembre con il messaggio «This is what climate change looks like», cioè “Questo è il cambiamento climatico”.
Secondo la descrizione del video, l’orso stava morendo perché – a causa dello scioglimento dei ghiacci del mar Glaciale Artico – non poteva andare a caccia di foche. In realtà nessuno sa con esattezza perché l’orso stesse male e sembra anzi che lo scioglimento dei ghiacci non c’entrasse. Per questa ragione sia il National Geographic che l’organizzazione ambientalista di cui Nicklen fa parte, SeaLegacy, sono stati criticati da un biologo e da alcuni esponenti della comunità Inuit.
Paul Nicklen aveva inizialmente messo il video dell’orso polare sul suo profilo Instagram e su Facebook senza attribuire direttamente lo stato dell’orso al cambiamento climatico – diceva solo che l’orso stava morendo di fame – ma usando le immagini, che sono abbastanza impressionanti, per dire che bisogna fare qualcosa contro il cambiamento climatico per salvare l’ecosistema degli orsi polari.
Le prime critiche sono arrivate dal biologo esperto di orsi polari Jeff Higdon, che su Twitter ha ipotizzato che l’orso filmato stesse morendo di un tumore osseo: «Quell’orso sta morendo di fame, ma secondo me non sta morendo di fame perché il ghiaccio è scomparso all’improvviso e quindi non poteva più andare a caccia di foche. La costa orientale dell’isola di Baffin [inizialmente indicata, scorrettamente, come luogo in cui il video era stato girato dal National Geographic, ndr] non è ghiacciata in estate. È molto più probabile che stia morendo di fame per altri problemi di salute».
That bear is starving, but IMO it’s not starving because the ice suddenly disappeared and it could no longer hunt seals. The east Baffin coast is ice free in summer. It’s far more likely that it is starving due to health issues.
— Jeff W. Higdon (@jeffwhigdon) 9 dicembre 2017
In un tweet precedente Higdon aveva anche criticato il messaggio con cui il video era stato diffuso perché secondo lui è controproducente per chi vuole fare informazione sui rischi del cambiamento climatico: «Video come questi sono toccanti e mirano a una reazione emotiva. Ma è molto facile che si ritorcano contro chi li usa, perché fanno sì che chi nega il cambiamento climatico si trinceri nelle sue posizioni ancora di più, in parte perché i messaggi che accompagnano le immagini sono facili da smontare». Le preoccupazioni di Higdon erano fondate, perché molte persone hanno poi usato le sue risposte per dire che la popolazione di orsi polari non si sta riducendo per il cambiamento climatico, ma per i tumori.
Videos like this tug at heartstrings and aim for emotional responses. But they have sig potential to backfire because they make the deniers dig in even more, partly because over the top statements that accompany them are usually easy to pick apart.
— Jeff W. Higdon (@jeffwhigdon) 9 dicembre 2017
L’11 dicembre altre critiche nei confronti del video sono arrivate da un programma radiofonico di CBC, il servizio pubblico radiotelevisivo canadese. Nel programma Leo Ikakhik, supervisore del numero di orsi polari di Nunavut ed esponente della comunità Inuit, ha espresso scetticismo sull’idea che l’orso stesse morendo per il cambiamento climatico e ha ipotizzato a sua volta che fosse malato, oppure ferito.
Cristina Mittermeier, cofondatrice di SeaLegacy, ha risposto alle critiche di Ikakhik con un messaggio molto duro che tra le altre cose accusava gli Inuit di sostenere che il cambiamento climatico fosse uno scherzo, nonostante Ikakhik non avesse detto nulla del genere: «Gli Inuit fanno molti soldi con la caccia sportiva agli orsi polari. È nel loro interesse dire che gli orsi polari sono felici e in salute e che il cambiamento climatico è uno scherzo, perché altrimenti la loro quota di orsi polari da cacciare potrebbe essere ridotta». Le accuse di Mittermeier agli Inuit e la risposta che poi ha ricevuto sono solo l’ultimo esempio della lunga storia di tensioni tra organizzazioni ambientaliste interessate alla salvaguardia dell’Artico e la comunità Inuit, che tradizionalmente caccia foche, balene, trichechi e orsi polari – principalmente per il proprio sostentamento.
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Mittermeier è stata criticata per le sue accuse agli Inuit da Madeleine Redfern, sindaca di Iqaluit, il capoluogo di Nunavut. Redfern ha definito l’attacco di Mittermeier «offensivo nei confronti del nostro popolo, della nostra cultura e del nostro stile di vita» e ha fatto notare che anche se le comunità Inuit hanno il diritto di cedere parte delle loro quote di orsi polari destinate alla caccia ai cacciatori sportivi, più del 90 per cento delle quote vengono usate per il sostentamento diretto delle comunità: un singolo orso polare, ha spiegato, vale 10mila dollari di carne per chi vive in posti molto isolati dove è difficile e costoso fare arrivare altro cibo.
Inuit forgo ~90% of potential income that could be derived from sports hunts because Inuit communities choose to hunt the bears themselves. Many of these communities have high unemployment & high rates of poverty. Prioritize culture & food. /4
— Madeleine Redfern (@madinuk) 13 dicembre 2017
Secondo la lista rossa dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), gli orsi polari sono una specie vulnerabile perché nel giro di tre generazioni la loro popolazione potrebbe diminuire di più del 30 per cento, per via delle conseguenze del riscaldamento globale sul loro habitat. Al momento, secondo la stima dell’IUCN, ce ne sono circa 26mila esemplari.