I video che mostrano cosa vuol dire essere un immigrato irregolare in Texas
Mostrano la precarietà di chi teme quotidianamente di essere separato dalla sua famiglia, ora che la polizia ha cambiato pratiche rispetto al passato
The Intercept, il sito di news fondato dal giornalista Glenn Greenwald, ha pubblicato un’inchiesta che racconta come i poliziotti del Texas stiano portando avanti una serie di controlli stradali sistematici per segnalare immigrati irregolari agli agenti del Border Patrol, l’agenzia federale che si occupa di controllare i confini degli Stati Uniti. Detta così, può sembrare una cosa normale: in realtà non lo è, da un punto di vista legale e soprattutto da un punto di vista della prassi.
Per come funzionano le leggi degli Stati Uniti, infatti, un poliziotto può indagare sullo status immigratorio di una persona se dopo averlo fermato per altri motivi ha il sospetto che possa essere senza documenti. A quel punto può segnalarlo al Border Patrol. Ma un poliziotto non può fermare arbitrariamente delle persone – per esempio perché sembrano messicane – e chiedere loro i documenti. Questo invece succede, come hanno dimostrato i video pubblicati da The Intercept.
I video, però, mostrano soprattutto un’altra pratica: gli agenti fermano le auto con pretesti futili, come targhe sistemate male o fanali non funzionanti, per poi segnalare gli eventuali immigrati irregolari al Border Patrol. Il sito ha raccolto le storie di alcune delle persone fermate nell’area di Brownsville con l’aiuto di Debbie Nathan, giornalista texana e attivista per i diritti umani.
Una è quella di un uomo, identificato soltanto come Paco, negli Stati Uniti da vent’anni, fermato e interrogato sulla regolarità della sua posizione: il video mostra il poliziotto insistere per ottenere risposte in assenza di un avvocato, che è illegale. Paco è stato detenuto per 33 giorni: Nathan ha raccontato che ora sta «lottando per non essere espulso».
Ma la vera anomalia denunciata dall’inchiesta di The Intercept riguarda più la prassi, che la teoria legale. Negli Stati Uniti, infatti, la popolazione di immigrati irregolari è molto alta, soprattutto negli stati di confine: in Texas si parla del 6 per cento della popolazione, e ancora di più nelle contee a ridosso del Messico. Le vite degli immigrati irregolari sono per molti versi totalmente normali, perché vige una tacita tolleranza sulla loro situazione: per una decisione del 1982 della Corte Suprema possono frequentare la scuola pubblica fino all’ultimo anno delle scuole superiori, mentre almeno in teoria le università e i college statali non richiedono il numero della Social Security (una specie di codice fiscale). Esistono però alcuni stati, come la Georgia, il South Carolina e l’Alabama, che invece hanno deciso di escludere gli immigrati irregolari, mentre ogni università privata ha i suoi criteri. Ma gli immigrati irregolari lavorano, pagano le tasse, e possono comprare una casa contraendo un regolare mutuo. Non possono tuttavia accedere alla maggior parte dei programmi di assistenza sanitaria e previdenza sociale.
Gli immigrati irregolari sono quindi una parte integrante della vita economica e sociale statunitense, e nonostante le deportazioni esistano da anni e si siano verificate in numero considerevole anche durante l’amministrazione di Barack Obama, non ci sono stati programmi che mirassero a colpire massicciamente i cittadini senza documenti che non fanno niente di male. Anche perché i figli degli immigrati irregolari nati negli Stati Uniti sono automaticamente cittadini statunitensi, per via dello ius soli, e spesso deportare un immigrato irregolare, che magari vive negli Stati Uniti da vent’anni, significa dividere senza particolari ragioni una famiglia che fino al giorno prima conduceva una normale vita americana.
Per diminuire la paura delle deportazioni, e per incoraggiare gli immigrati irregolari ad avere un rapporto con le autorità – segnalando reati, iscrivendo i figli a scuola, eccetera – molte amministrazioni locali in tutti gli Stati Uniti hanno istituito nelle proprie comunità delle sanctuary city, città in cui le leggi sull’immigrazione sono più morbide o sono applicate in maniera più flessibile. Nonostante siano molto diffuse (si parla di centinaia, soprattutto nell’Ovest e nel Sud), le sanctuary city non sono un preciso concetto giuridico, ma più che altro città che condividono un’idea sull’immigrazione.
Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, in Texas si cominciarono però ad applicare politiche più rigide e maggiori controlli sugli immigrati, soprattutto quando il governatore era il Repubblicano Rick Perry, che dispose grandi aumenti del budget destinato al Border Patrol. Aumentarono anche i poliziotti semplici che controllavano le aree di confine, dove spesso la popolazione ispanica supera il 75 per cento: fermando le auto per piccole infrazioni, i poliziotti potevano controllare i passeggeri per verificare se avessero compiuto altri reati più gravi. Negli scorsi anni capitava anche che i poliziotti chiamassero il Border Patrol perché le persone fermate non avevano documenti: ma gli agenti federali non erano interessati a deportare singoli immigrati che conducevano vite normali e con famiglie, e nella stragrande maggioranza dei casi lasciavano correre. Durante l’amministrazione Obama, la politica adottata fu quella del “Catch and release”: si fermavano gli immigrati irregolari per qualche ora, senza chiamare gli agenti federali, si prendevano loro le impronte digitali, e poi li si lasciava liberi.
Ma nel novembre del 2016, subito prima delle elezioni presidenziali, il capo della polizia del Texas Stece McCraw ordinò con una email ai suoi dipendenti di terminare questa politica, e spiegò che la prassi doveva diventare chiamare gli agenti federali. The Intercept ha spiegato che non è facile stimare il reale impatto di questa decisione, perché i dati della polizia texana sono incompleti e difficili da ottenere: e la polizia stessa ha detto a Nathan di non sapere quanto spesso si verifichino questi episodi. Alcuni dati ottenuti da un senatore Democratico texano dicono però che prima della nuova direttiva di McCraw le segnalazioni dei poliziotti agli agenti federali in Texas erano circa 13 al mese, mentre entro dicembre erano salite a 40.
Nathan ha incontrato Alan Reyes, un 17enne messicano nato negli Stati Uniti, dove vive insieme ai suoi genitori dal 2014: frequenta la high school, fa una normale vita da adolescente americano ed è anche capitano della squadra di calcio della scuola. Quest’anno un agente ha fermato i suoi genitori, in auto con il fratello minore di Reyes. Scoperto che il padre non aveva i documenti, l’agente ha chiamato un agente del Border Patrol che casualmente passava di lì, spiegandogli la situazione. La madre di Reyes lo ha chiamato per farlo venire a prendere suo fratello, e quando è arrivato l’agente gli ha detto che avrebbe dovuto chiamare qualcuno con la patente per spostare l’auto, e che suo padre sarebbe stato arrestato. In realtà è stata arrestata anche sua madre, e visto che non potevano permettersi un avvocato, entrambi sono stati deportati. Reyes e i suoi tre fratelli hanno continuato per un po’ a vivere nella casa di famiglia, ma quando ha finito i soldi per l’affitto sono stati sfrattati. Oggi vivono in una sistemazione di fortuna con alcuni parenti, e ogni weekend vanno a visitare i genitori in Messico.
Quest’anno il Texas ha approvato una legge statale conosciuta come SB4, o “mostrami i documenti”. Istruisce sostanzialmente tutti gli agenti di polizia dello stato a interrogare le persone fermate sul loro status. Alcuni agenti hanno deciso tuttavia di non applicare le nuove regole e a fine agosto un giudice federale ha bloccato buona parte della legge, di fatto permettendo agli agenti di verificare la regolarità degli immigrati e eventualmente di chiamare gli agenti federali, ma togliendo la parte che li esponeva al rischio di sanzioni disciplinari nel caso non l’avessero fatto.