La scopa di Margaret Atwood
L’autrice del "Racconto dell’ancella" è passata da Milano per ricevere un premio e ha fatto la strega, come al solito
di Ludovica Lugli
Margaret Atwood sa che assomiglia a una strega, e ci scherza sopra. A un gruppo di giornalisti raccolti intorno a lei in una saletta del cinema Anteo di Milano racconta divertita che lo scorso 30 ottobre, mentre spazzava le foglie cadute dagli alberi davanti a casa sua a Toronto, il suo vicino, «un avvocato spiritoso di nome Sam», le disse che non avrebbe dovuto farsi vedere con la scopa per non alimentare la sua fama di «strega cattiva del quartiere». Lei gli rispose che «la paura ispira più rispetto dell’ammirazione». Con la scrittrice Chiara Valerio, durante un incontro pubblico alla Fondazione Feltrinelli la sera del 6 dicembre, ha scherzato sul non poter rivelare i segreti del suo sabba.
Atwood, scrittrice canadese autrice di più di 15 romanzi tra cui L’assassino cieco, ha 78 anni, i capelli bianchi ricci e gli occhi azzurri; ha la pelle chiara e luminosa nel modo in cui lo è la pelle di certe persone anziane molto curate. Il suo tono di voce è molto basso, salvo quando sta raccontando un aneddoto divertente o parlando di qualcosa che le sta molto a cuore. Ride di gusto delle proprie battute, anche quando le riascolta tradotte dall’interprete.
È venuta a Milano per ricevere un premio: il Raymond Chandler alla carriera consegnato dal Noir in Festival, una manifestazione dedicata al genere noir nel cinema e nella letteratura che si tiene da ventisette anni e dal 2016 si è spostata tra Como e Milano. Nessuno dei giornalisti che le stanno attorno devotamente – un po’ per l’autorevolezza che Atwood ispira, un po’ per il suo tono di voce basso, appunto – le fa domande sul premio, e nemmeno su Seme di strega, la sua riscrittura di La tempesta di Shakespeare uscita in Italia a novembre: in un modo o nell’altro vogliono parlare quasi tutti di Il racconto dell’ancella e L’altra Grace, i suoi due romanzi da cui sono state tratte due serie tv uscite quest’anno.
Di cosa parlano sei romanzi di Margaret Atwood.
Entrambi i romanzi, e quindi le serie che hanno ispirato, hanno per protagoniste delle donne e delle donne «senza diritti»: quelle di Il racconto dell’ancella (The Handmaid’s Tale in inglese) vivono nel futuro in una società teocratica nella quale i compiti delle donne si esauriscono tra la cura della casa e il partorire bambini. Quella di L’altra Grace (Alias Grace), invece, vive nel Canada di metà Ottocento, dove la qualità della vita delle donne dipendeva in gran parte da come gli uomini si comportavano con loro e la loro libertà personale era limitatissima. Per la stessa Atwood le somiglianze tra i due romanzi si esauriscono nella questione dei diritti delle donne e nel fatto che noi la osserviamo da un presente in cui le donne hanno «alcuni diritti», detto con uno dei suoi sorrisetti. E anche nel fatto che sia le ancelle della distopia sia le cameriere di metà Ottocento indossavano delle cuffie in testa.
«È stato casuale secondo lei che entrambe abbiano visto la luce adesso, in questo momento, in televisione?», le chiede una giornalista. La risposta, in breve, è sì, e questo fa venir voglia di credere veramente nei presunti poteri sovrannaturali di Atwood. Infatti, spiega lei, la serie tv L’altra Grace era nei progetti della sua sceneggiatrice e regista Sarah Polley da circa vent’anni, e solo le circostanze della sua vita privata – la nascita di due figlie e un estintore che le cadde in testa – l’hanno portata a realizzarla di recente. La produzione del Racconto dell’ancella è stata invece ritardata per anni perché non si sapeva a chi appartenessero i diritti televisivi del romanzo: erano stati venduti insieme a quelli cinematografici per la realizzazione del film omonimo diretto dal regista tedesco Volker Schlöndorff, uscito nel 1990, ma la casa di produzione MGM, che aveva fatto il film, non sapeva di averli.
È stato un caso che la serie Il racconto dell’ancella sia uscita negli Stati Uniti tre mesi dopo l’insediamento del presidente Donald Trump, il cui vicepresidente Mike Pence ha idee simili a quelle dei politici americani che negli anni Ottanta ispirarono Atwood a scrivere il romanzo. Pence è infatti molto conservatore sui temi sociali, è contrario all’aborto e ai matrimoni gay, e si è discusso molto di quando disse che non cenerebbe mai da solo con una donna che non fosse sua moglie. È anche stato un caso che L’altra Grace sia stata trasmessa in Canada (e poi resa disponibile su Netflix nel resto del mondo) nei giorni in cui molte attrici hanno parlato delle molestie sessuali subite da parte di Harvey Weinstein, dando inizio alle molte denunce simili arrivate nelle settimane successive. Atwood scherza anche su questo: «Penserete che io abbia pagato queste persone. “Harvey, molestane qualcun’altra!”».
Sul caso Weinstein, Atwood dà un’altra risposta, che le fa alzare il tono di voce e la fa parlare più lentamente: «È una storia vecchia come il mondo, quella per cui chi ha il potere pensa di potere comportarsi come vuole, specialmente nei confronti di donne giovani e inesperte che vorrebbero lavorare in quel settore». Poi aggiunge che «ogni persona che è stata una giovane donna conosce questa storia» e scherza di nuovo dicendo: «Ma a me di recente non è capitato spesso di subire aggressioni sessuali, non mi spiego perché».
All’età di Atwood le interviste sono una cosa faticosa – ne ha concesse solo due singole e poi questa, di gruppo – ma così anche un po’ divertente: è un piccolo ricevimento in cui una signora anziana può dire tutto ciò che vuole e fare battute a cui tutti rideranno. Tra una domanda e l’altra cita alcuni libri e quando vuole consigliarli fa una piccola pausa, guarda bene negli occhi il suo interlocutore principale e sottolinea: «Recommended». Ogni tanto dà l’impressione di sentirsi impegnata in una specie di performance, come quando alla fine di alcune risposte chiede: «Questa com’era?».
Tornando alla “questione delle donne”, Atwood ne ha una lunga esperienza – non solo perché ha una lunga esperienza di cosa comporta esserlo, ma anche perché il lavoro di scrittrice richiede di interrogarsi su ciò che succede nel mondo – ma non si riconosce nell’etichetta di «femminista» che viene data a lei e ai suoi romanzi da molte persone. Rispondendo a una domanda del pubblico, aveva spiegato di essere nata troppo tardi per il primo femminismo (quello che lottava per il suffragio universale, principalmente) e troppo presto per vivere da giovane il secondo.
Sulle unghie Atwood ha uno smalto trasparente, un po’ di rossetto sulle labbra; porta dei leggings, degli stivaletti scamosciati e una sciarpa colorata. Chi segue da vicino i dibattiti culturali sulle questioni che riguardano le donne in quanto genere può avere l’impressione che ultimamente a ogni scrittrice, in quanto intellettuale, sia chiesto di condividere le proprie opinioni sull’argomento. Alcune scrittrici non esitano a parlarne e a scriverne, come Chimamanda Ngozi Adichie. Atwood viene interrogata in merito fin da quando nel 1969 uscì il suo romanzo La donna da mangiare, la cui protagonista mette in discussione varie convinzioni su come debbano comportarsi le donne nella società. Per questo una domanda che viene naturale farle è se consideri i suoi libri, compresi quelli che parlano di catastrofi ecologiche (Atwood è una dichiarata ambientalista), come una forma di attivismo. Un’altra è come la faccia sentire essere considerata da molte persone una specie di eminenza grigia su alcuni argomenti.
«La realtà è molto incasinata: alcune persone si comportano meglio di altre – sai che segreto. Quando descrivi la realtà per quello che è, alcune persone finiscono per etichettarti come portavoce di qualcosa, ma quello che stai facendo è descrivere la realtà. Questo è quello che fanno gli scrittori in un modo o nell’altro, anche se stanno scrivendo di una galassia lontana lontana e di un’altra epoca. In ogni caso descrivono come funziona il potere. Non c’è bisogno che tu faccia parte di un movimento per farlo, basta che osservi il mondo. Può trattarsi di attivismo, come risultato involontario».
La prende un po’ alla lontana, ma poi ci arriva:
«Sono una specie di attivista involontaria, non volevo fare quello, il mio piano era scrivere libri di narrativa. Il fatto è che più osservi la realtà e ne scrivi, più le persone decideranno che sei un qualche tipo di attivista. A meno che non scegli una tela molto piccola. A meno che non parli di Bob e Carol e Ted e Alice (i protagonisti di questo film, nda), che vivono in un’area residenziale e hanno delle relazioni extraconiugali, in quel caso non c’è molto attivismo probabilmente, almeno finché non ti chiedi “e la donna che fa le pulizie per Alice?”. A quel punto stai descrivendo una realtà incasinata e le persone parleranno di attivismo. Quando le persone mi leggono in questo modo, quello che dico è “grazie mille, ma quest’altra persona è un vero attivista, io sono una scrittrice”».
Nell’ultima domanda che le viene fatta, però, Atwood si smaschera un po’ rispetto al suo autoritratto di «attivista involontaria». La domanda arriva da un giornalista che comincia dicendo: «Lei ha scritto per Playboy…». Atwood lo precede: «Perché mai l’ho fatto? Perché le scrittrici si sono lamentate per anni di non poter pubblicare su Playboy, che all’epoca era vista come una rivista con dei contributi letterari abbastanza alti, tutti scritti da uomini. Quando uno ti chiede di scrivere per Playboy dopo anni che ti lamenti di non poterci scrivere, dici sì o no? Io ho detto sì». Il giornalista non è contento della risposta e la incalza: «Ma non è una bibbia della donna-oggetto, Playboy?». Al che Atwood risponde: «Assolutamente. Ma è meglio predicare sempre al tuo gregge, ai convertiti, o andare tra i peccatori e lasciar cadere una piccola bomba dove la potranno leggere?». E infine aggiunge: «Non sono molto interessata alla mia immagine di donna virtuosa. Per quella ormai è davvero tardi».