La “proposta Richetti” sui vitalizi non sarà approvata
Era stata votata dalla Camera a luglio e serviva a tagliare i vitalizi dei politici in pensione: il Senato però è riuscito a bloccarla
È fallito l’ultimo tentativo di far approvare entro la fine della legislatura la cosiddetta “proposta Richetti“, una legge che avrebbe portato al taglio dei vitalizi dei politici che si trovano in pensione. Matteo Richetti, deputato del PD e autore della proposta, ha tentato di far inserire la sua legge all’interno della manovra finanziaria. La sua richiesta, però, ieri è stata dichiarata inammissibile. La “proposta Richetti” era stata approvata alla Camera lo scorso luglio e ora è ferma al Senato. L’unico modo di approvarla definitivamente adesso è che venga messa ai voti e approvata regolarmente, senza utilizzare la scorciatoia di un suo inserimento nella manovra. Al momento, però, della proposta non c’è traccia all’interno dell’ultimo calendario dei lavori del Senato, quello che arriva fino al termine dell’attuale legislatura.
In sostanza, tutti i principali osservatori di cose politiche scrivono che il percorso della legge è sostanzialmente finito, almeno per questa legislatura. Non è possibile inserirla nella manovra finanziaria per farla approvare surrettiziamente al Senato, mentre il Senato non sembra avere intenzione di approvarla prima della fine della legislatura. A opporsi sono la maggioranza dei senatori, compresi numerosi del Partito Democratico, che sono stati sempre critici nei confronti della proposta e che, più di recente, hanno contribuito a far sì che la legge non venisse calendarizzata in tempo utile. «Mi meraviglio che non si comprenda l’importanza di questo tema», ha detto ieri Richetti. La proposta Richetti è al centro di uno scontro politico tra PD e Movimento 5 Stelle, che accusa il partito di Richetti di non voler approvare la proposta per difendere i privilegi dei politici.
La proposta Richetti avrebbe riguardato circa 2.600 ex parlamentari che ricevono in tutto 193 milioni di euro netti di vitalizio ogni anno. Non riguarda invece gli attuali parlamentari, che al raggiungimento dell’età pensionabile (per i parlamentari è tra i 60 e i 65 anni) non ha più diritto a un vitalizio, ma a una pensione calcolata in maniera molto simile a quella di tutto gli altri dipendenti pubblici. La proposta prevedeva di ricalcolare con il metodo contributivo l’importo dell’assegno pensionistico per gli ex parlamentari che sono andati in pensioni con regole molto più generose delle attuali.
Significa che gli ex parlamentari riceverebbero un assegno proporzionato ai contributi che hanno versato e non calcolato sulla percentuale dei loro ultimi stipendi, cioè calcolato con quello che si chiama “metodo retributivo”. Secondo i calcoli dell’INPS, questo avrebbe portato a una riduzione media del 40 per cento degli assegni pensionistici. Annualmente gli ex parlamentari sarebbero passati dal ricevere una media di 56.830 euro a una media di 33.568 euro (117 ex parlamentari che hanno avuto carriere particolarmente lunghe vedrebbero invece il proprio assegno aumentare). Lo Stato avrebbe risparmiato circa 70 milioni di euro l’anno grazie a questa operazione.
Secondo Repubblica:
Eviteranno così la scure politici di lungo corso come Publio Fiori, recordman alla Camera con i suoi 10 mila euro mensili, o gli ex ministri Mastella, Pisanu, Mancino e Bassanini, che si “ accontentano” dei circa 7 mila euro netti garantiti dal Senato. Salve anche le meteore del parlamento, da Gino Paoli (2.140) a Ilona Staller in arte Cicciolina (2.231). Restano intatti gli emolumenti di sportivi (Gianni Rivera, oltre cinquemila euro al mese) e critici d’arte: Vittorio Sgarbi vede confermata la “ pensione” da 4.943 euro che può sommare all’indennità da neoassessore regionale in Sicilia. Salta pure l’innalzamento dell’età minima per ottenere il vitalizio ( 65 anni anziché 60) previsto dalla legge Richetti rimasta nel guado.
Ci sono diverse ragioni per cui la proposta Richetti ha incontrato difficoltà proprio al Senato. La prima è che questa è la camera dove il PD ha la maggioranza più risicata e dove spesso non è riuscito a far passare provvedimenti di vario genere, a causa delle defezioni interne o di quelle degli alleati (allo ius soli è accaduta la stessa cosa). Ma il Senato è anche la camera i cui componenti, più anziani e in genere più esperti dei deputati, sono tradizionalmente più inclini a difendere lo status e i privilegi dei parlamentari. Tra i principali avversari della legge c’è per esempio Ugo Sposetti, ex tesoriere del PD e piuttosto vicino agli scissionisti che hanno lasciato il partito. Sposetti ha sempre detto che avrebbe condotto una battaglia contro la legge in nome soprattutto del principio dei diritti acquisiti, cioè dell’idea che non sia legale modificare un emolumento – come un vitalizio – a cui si è ottenuto diritto in passato.
Per questa ragione alcuni parlamentari ed esperti di diritto costituzionale sostengono infatti che la legge non passerebbe l’esame della Corte Costituzionale. La Corte potrebbe decidere di bocciarla perché “retroattiva”, cioè perché tocca cosiddetti “diritti acquisiti”, oppure potrebbe sostenere che il ricalcolo contributivo per i soli parlamentari non sia equo, visto che milioni di italiani percepiscono oggi pensioni calcolate con metodo retributivo e quindi potrebbe verificarsi una discriminazione nei confronti dei soli parlamentari. Altri critici della proposta sostengono che sarebbe anche peggio se la Corte dovesse lasciar passare la legge. Cesare Damiano, deputato della sinistra PD, sostiene che in quel caso si creerebbe un precedete che un futuro governo potrebbe utilizzare per far approvare un ricalcolo generale delle pensioni retributive con metodo contributivo. Una simile manovra porterebbe a un taglio dell’assegno pensionistico di milioni di italiani. Fino a questo momento, tra le ragioni per cui non è stata messa in atto (oltre alla sua probabile impopolarità) c’è proprio il timore di una bocciatura da parte della Corte costituzionale.
Attualmente i deputati non hanno più diritto ai vitalizi, che furono aboliti alla fine del 2011 dal governo Monti. Il nuovo regolamento di Camera e Senato li ha ribattezzati “pensione dei deputati” e “pensione dei senatori”. Il metodo con cui vengono calcolate queste pensioni è diventato “contributivo”: significa che l’assegno è legato ai contributi che vengono effettivamente versati. Il risultato è stata una significativa riduzione del loro importo. Secondo i calcoli della Camera dei deputati, a partire dall’attuale legislatura un deputato neoeletto e che concluderà il suo mandato senza ricandidarsi potrà godere di una pensione aggiuntiva di poco meno di 1000 euro lordi una volta compiuti i 65 anni. Se invece sarà rimasto in carica per due legislature, potrà andare in pensione a 60 anni ottenendo circa 1.500 euro lordi.